Je m’appelle humain, di Kim O’Bomsawin

Je m’appelle humain, presentato alla 19° edizione delle Journées du cinéma québécois en Italie, ci parla di affari fondamentali, come l’importanza della lingua madre che ci genera, preserva e nutre

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C’è un momento, proprio all’inizio di Je m’appelle humain, in cui la poetessa Joséphine Bacon racconta di esser venuta molto tardi a conoscenza della parola “poesia”, perché la sua lingua madre, l’innu-aimun, semplicemente non necessita di una parola del genere: gli Innu, popolazione autoctona della penisola del Labrador (Canada Orientale) sono come intrinsecamente poetici, essendo un tutt’uno “con la montagna, e con il fiume”, ci spiega. Insomma, non avvertendo la separazione con l’essenza di ciò che inesorabilmente ci scorre davanti (e che che cos’è la poesia se non lo svelamento di quell’essenza) semplicemente non si avverte la necessità di definire ciò che è poetico. Inoltre la parola che definisce la lingua degli Innu, “inni-aimun” per l’appunto, altro non significa che essere umano, proprio a ribadire che per gli Innu non c’è distacco alcuno dalla lingua, ma totale fusione con ciò che essa nomina. Per questo la poetessa Joséphine Bacon si batte da sempre per preservare le parole del suo popolo, definendo questa lotta per la sopravvivenza della lingua, e quindi per quella di un popolo e della memoria di quest’ultimo, una vendetta. Parola potentissima “vendetta” a pensarci, e altresì necessaria, proprio per la barbarie che ha visto le popolazioni indigene del Canada esser strappate alla loro terra e costrette ad una presunta civilizzazione nelle riserve e negli istituti scolastici, mostrati in Je m’appelle humain con immagini di repertorio che non hanno davvero nulla da invidiare al miglior cinema horror. A restituirci questo documentario estremamente potente, presentato alla diciannovesima edizione delle Journées du cinéma québécois en Italie, c’è la regista di origine Abenaki (tribù di nativi americani originati del Quebec), Kim O’Bomsawin, anche attivista per i diritti umani delle donne indigene in Canada e negli Stati Uniti.

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La O’Bomsawin si concentra spesso e volentieri sul volto della sua protagonista, alternandolo alla musicalità delle poesie di quest’ultima. Poesie nella quali vivono e riecheggiano gli echi degli Anziani del suo popolo, svelandoci così meravigliosamente che nulla muore e tutto si conserva, finché c’è una lingua a preservare. Ma non c’è solo la lingua. Ci sono le immagini dei documentari girati dalla Bacon in giovane età, anche esse luminose custodi della memoria. E poi c’è qualcosa di più semplice, di primordiale, forse l’unica cosa che conta, e cioè la terra dove, spiega la Bacon, ancora son conservati i passi di chi è stato e fra moltissimi anni, ancora vi saranno i suoi, compiuti in quel momento di fronte alla macchina da presa. Perché il punto è che nella scomparsa, nulla davvero scompare, e probabilmente non esiste niente di più puro di un tale rapporto con la morte, tutt’ora un totale tabù per il cosiddetto popolo civilizzato. E questo risulta chiaro nella bellissima sequenza che Je m’appelle humain ci mostra sull’uccisione del caribou, animale venerato dagli Innu, e incarnazione del  dio  Papakassik. Perché nel sacrificio dell’animale c’è il ringraziamento e nella sua morte, l’annullamento della stessa: il consumo della sua carne dà nutrimento e tramite esso lo spirito dell’animale rivive nell’essere umano, in un circolo in effetti così poetico, che in fondo non ci risulta difficile capire perché per gli Innu non c’è bisogno di nominare la poesia affinché essa esista. Insomma Je m’appelle humain è un documentario piccolo che ci arriva in tutta la sua delicatezza e forza, e ci parla di affari fondamentali, come la morte, e non di meno la sua necessaria bellezza;  come l’importanza della lingua madre, che è colei che ci genera e ci dà nutrimento, e non per ultimo come l’importanza della lotta, la fierezza della battaglia contro l’eccidio di ogni popolo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
2 (1 voto)
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