La cordigliera dei sogni. Sentieri Selvaggi intervista Patricio Guzmán

Partendo dal suo ultimo film, in sala in questi giorni in Italia, il cineasta ci racconta in esclusiva il suo prossimo progetto, dedicato alle rivolte di Santiago del 2019

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“La cordigliera delle Ande è così vicina, così parte di noi, che a un certo punto non la vediamo più”. La riflessione che fa il regista cileno Patricio Guzmán a proposito del suo ultimo film La cordigliera dei sogni si riferisce pure alla storia del Paese. Al passato recente che a volte si rende quasi invisibile, come se fosse un elefante bianco che invade ogni angolo della stanza, anche se nessuno lo può vedere. Così, il regista porta ancora avanti la volontà di costruire la memoria del Cile, o almeno quella parte che lui non vuole dimenticare. Con un modus operandi simile ai suoi film precedenti – Nostalgia della luce e La memoria dell’acquaLa cordigliera dei sogni si installa nella regione centrale del Cile e della Cordigliera delle Ande, testimone sempre muto che incomincia a parlare e si carica di un discorso mitologico. Mentre, sotto la sua ombra, la città di Santiago emerge come uno spazio vivo, rumoroso e irrequieto, dove gli uomini provano a trovare una strada.
Con questo film, Patricio Guzmán chiude la sua trilogia geologica che fonde un oggetto naturale con un racconto di memoria storica e iscrive quella doppia dimensione in una metafora mitica sul Cile, localizzata in una mappa che divide in tre questo cosiddetto “lungo e stretto pezzo di terra”. Un cinema tridimensionale che non lascia mai andare la nostalgia propria del mezzo, quella voglia di riprendere un pezzo di realtà che minaccia di sparire per farlo diventare infinito.
Oggi, il regista vuole parlare anche del nuovo film che sta girando, Il mio paese immaginario. Un altro sguardo sul Cile che lui ha lasciato 40 anni fa, dopo il colpo di Stato dell’11 settembre 1973. Questa volta, Guzmán racconta la rivolta sociale accaduta il 18 ottobre 2019 a Santiago, rivolta iniziata dagli studenti dopo il rincaro del biglietto della metro e che è divenuta in uno dei più grandi movimenti sociali del ventunesimo secolo. “Questo film parla del risveglio dei giovani, di cosa li ha spinti ad uscire per strada e protestare, cosa si aspettano dal futuro, ecc. Spero di concluderlo presto”, racconta.

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Nel tuo cinema, parli sempre di solitudine. La solitudine dopo il colpo di Stato, durante la dittatura, nell’immensità della natura, la solitudine dell’oblio. Adesso, con la pandemia, viviamo una nuova forma di solitudine, un confinamento involontario. Come fa un regista che trova la sua mobilità “al di fuori”, a portare avanti questa chiusura?

Guzmán: È una domanda difficile… La vita di un documentarista, più che analizzare la realtà, è guardare quello che gli succede intorno, calarsi nel posto. Nel caso dal Cile, sono successe tantissime cose in poco tempo. All’improvviso, dopo una piccola manifestazione per il rincaro del biglietto della metro, è esplosa una intera città, questo è abbastanza straordinario. Un’esplosione sociale che ha coinvolto milioni di persone, senza politici, senatori, deputati, senza un capo… è un fatto storico unico. Abbiamo intervistato un sacco di giovani cileni, sopratutto donne, che parlano di quello che provano per la rivolta e cosa vorrebbero per il Cile.

Alla fine de La cordigliera dei sogni, parli delle stelle cadenti che portano con sé la “memoria del futuro”… poi esprimi un desiderio: che il Cile possa ritrovare la sua infanzia, la sua felicità. Quello stesso anno, accade questo risveglio popolare, cominciano le rivolte, il Cile si sveglia. Sembra quasi un presagio. Pensi che il tuo desiderio si sia avverato?

Guzmán: Innanzitutto, penso che la cosa più importante sia che si sta cercando una nuova strada, più che ritrovare quel Paese che si è perso tanti anni fa. Per cambiare la Costituzione si tratta precisamente di cancellare un vecchio sistema, credo che quello nuovo sarà molto più umano, oltre che rivoluzionario. Le persone vogliono sopratutto togliersi di dosso il cappotto di metallo che è stata la dittatura di Pinochet. Questo capita dopo oltre 40 anni di attesa, è veramente incredibile, sono dovuti passare 40 anni per far cambiare le cose, per far ricordare alle persone come era il Cile prima della dittatura.

Nel film parli pure di “indifferenza della mia terra”, che provavi ogni volta che tornavi in Cile. Adesso sei andato a girare il tuo nuovo film dopo il “risveglio sociale”. Senti ancora quella indifferenza?

Guzmán: In realtà no, non sento più questa indifferenza della mia terra, perché da quando ho girato La cordigliera dei sogni nel 2019, tutto è molto cambiato. Il paese si è risvegliato da un lungo letargo verso il lato bello della vita, quello che ti permette di liberarti dai debiti, di migliorare l’educazione, di finirla con la mancanza di posti di lavoro, ristabilire un Paese pacifico, ampio e generoso, dove la società civile organizza un referendum e apre le porte per una strada legale. Questo è veramente straordinario, un percorso che nessun Paese ha fatto prima. È molto bello il fatto che si possa recuperare la maturità politica, lasciar dietro la paura e la repressione, diventare un Paese che cerca il futuro. Sono molto contento di esserne testimone e poter raccontare questo fenomeno.


Oltre all’immaginario storico e sociale, nei tuoi film c’è sempre un riferimento alla geologia, qualcosa di alieno agli umani, che rappresenta un pezzo di noi. Cosa hai scelto per rappresentare il fenomeno del “risveglio sociale”?

Guzmán: C’e molta acqua, pioggia, oggetti, le pietre che lanciano le persone durante le manifestazioni. Se prendessimo tutte le pietre che hanno gettato negli ultimi anni, potremo innalzare proprio una montagna. Nelle manifestazioni, i cileni si piegano, guardano il pavimento, prendono un pezzo del passato e poi lo gettano davanti a loro. Sempre verso il futuro.

In Cile è appena uscito un documentario sul fotografo cileno Sergio Larraín, El instante eterno, dove si parla degli ultimi anni di vita del fotografo, quando ha smesso di fare foto perché si è reso conto che “non si può cambiare il mondo attraverso la fotografia”. Cosa ne pensi di questa frase? Credi sia possibile cambiare la realtà attraverso l’arte?

Guzmán: Non ho visto ancora il film! Lui è un grandissimo fotografo; infatti, ho due dei suoi libri qua a casa e li sfoglio sempre. Anche lui è vissuto all’estero, tanti anni lontano dal Cile, ma non faceva altro che pensare al suo Paese e osservarlo attraverso l’arte, proprio come faccio io… sicuramente lui alla fine si sarà stancto di provare a cambiare qualcosa. Sono d’accordo con la frase “non si può cambiare il mondo attraverso la fotografia”, oppure attraverso l’arte. Almeno non è quello che io cerco di fare. Faccio dei film perché mi va di farli, non penso che potranno alterare la realtà, sono semplicemente il mio punto di vista personale su qualcosa. Mi piace molto questo tipo di creatività. L’arte cinematografica, sia documentario o finzione, per me è come un inquilino che comincia a camminare, i miei film sono amici a cui apro la porta di casa ed escono fuori, per farsi vedere al mondo… ma non vedo un proposito causa-effetto, i film sono soltanto dei suggerimenti che puoi fare, cose che fai notare con la videocamera. Un film è soltanto un suggerimento momentaneo.

Hai detto pure che i film sono anche contenitori della “memoria del futuro”. Poi, parli del lavoro dei tuoi collaboratori, come l’operatore cileno Pablo Salas, che è rimasto sempre in Cile a riprendere la realtà e a riempire questo “contenitore”. Sembra che lui sia quasi la tua altra versione, quella che non è mai partita…

Guzmán: Certo, Pablo Salas è molto importante, continuiamo a lavorare insieme, lui mi manda il suo footage dal Cile e io sono molto grato di questo, visto che non posso andare di persona a registrare. Ci sono pure altri registi che mi mandano il loro lavoro, più che corrispondenti sono i miei amici, autori come me, che amano il documentario. Per i miei altri film, sono sempre stato io ad andare al posto, per vedere, vivere l’esperienza, deserto, sud, cordigliera… ma adesso mi serve aiuto. Quindi è molto importante avere degli amici registi che ti possano aiutare, come Pablo e altri realizzatori più giovani. Il cinema è un’arte collaborativa, dovrebbe esserlo, proprio come una comunità. Tutti siamo autori, ma ci unisce la stessa passione per la realtà, per il tempo, per la vita che c’è nel nostro Paese. Per questo, le opere non appartengono soltanto a una persona, appartengono al Cile.

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