L’ambiguità perfetta – 15 anni senza Alberto Lattuada

Il 3 luglio 2005 moriva Alberto Lattuada: ritorniamo sul cineasta che, da Il mulino del Po a Cuore di Cane via Anna, con i suoi sforzi compositivi ci ha permesso di guardare al di là del quadro

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A quindici anni dalla scomparsa di Alberto Lattuada, si ha come l’impressione che sul suo cinema si debba ancora scrivere tutto. Certo, non mancano i contributi monografici e le elucubrazioni saggistiche. Ciononostante, di fronte all’ambiguità mutevole e suggestiva delle immagini sprigionate dai suoi film ci si continua a domandare se forse non sarebbe il caso di tornarci sopra. Dalla panoramica a 360° per mostrare le macerie nella Torino liberata de Il bandito (1946) alla penombra da cui scaturisce danzando Silvana Mangano in Anna (1951) fino a giungere al ghigno beffardo di Cochi Ponzoni in Cuore di cane (1976) e oltre. C’è appunto sempre qualcosa che sfugge, che sforma il quadro, in spregio al perfezionismo che caratterizzava la sua prassi registica. Il manicheismo drammaturgico, la circolarità narrativa e l’ansia compositiva riscontrabili soprattutto negli esordi di Lattuada sono forme di schematizzazione che acquistano forza espressiva se, come ha scritto Gianni Volpi nel 2009, «il suo imperativo è stato quello di dare forma al caos» (contributo nel volume curato da Adriano Aprà per Marsilio).

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L’atto filmico per il cineasta milanese, laureato in ingegneria al Politecnico, doveva perciò avere l’ambizione di riordinare il reale. Ciò risulta abbastanza evidente in un film come Il mulino del Po (1949), riduzione di un romanzo in quattro parti di Riccardo Bacchelli in cui si mette in scena un conflitto fra due famiglie contadine alla fine dell’Ottocento. Da una parte la ricontestualizzazione del presente (le lotte per i diritti dei lavoratori nelle campagne del dopoguerra) in controtendenza col cronachismo neorealista, dall’altra l’impressione di un sostrato tragico nella rappresentazione del fiume come deus ex machina. La plastica e severa bellezza delle immagini restituisce alla natura la sua rilevanza, come una voce che finalmente si eleva sugli uomini sussurrando il proprio volere. A ogni modo, quella di Lattuada è una sorta di fiducia a priori nei confronti del reale, la convinzione di poter trovare nell’evento più indecifrabile e nel comportamento più irrazionale, un versante su cui poter lavorare criticamente, un’apertura attraverso la quale sia leggibile un senso, un’angolazione da cui si possa studiare e interpretare le vicende. Non si tratta di semplice lettura dell’esistente, quindi, ma di vero e proprio intervento che gli sovrapponga un modello di ordine mentale, applicandovi un filtro di tipo intellettuale. Oltre al fatto che molte scene, prima fra tutte proprio quella dello scontro con i soldati, evidenziano la volontà di definire la composizione dell’inquadratura secondo linee geometriche. Lattuada cerca la dimensione del quadro in prospettiva e ristruttura lo spazio nei momenti di tensione tanto che, secondo Bruno Di Marino, le figure incorniciate all’interno delle singole inquadrature «acquistano un rilievo espressivo e drammatico in rapporto al dinamismo dei vari elementi in scena» (anche questo contributo risale al 2009).

Dunque persino quando negli anni seguenti si dedicherà ai corpi delle cosiddette ninfette, ragazze colte nell’atto di sbocciare, l’intenzione rimane quella di mostrare qualcosa di irripetibile con la libertà che ogni artista si aspetta di poter sottoscrivere. Un film non è mai solamente un film, un personaggio non ha una sola faccia e dietro ogni cosa si nasconde sempre qualcos’altro. È così per il contrabbandiere impotente di Senza pietà (1948), per l’emigrante ex picciotto d’Onore in Mafioso (1962) oppure le caste sorelle spietate di Venga a prendere il caffè… da noi (1970).
E insomma risulta suggestivo constatare come per Lattuada la ragione che sovrasta gli istinti non sarebbe altro che il linguaggio cinematografico inteso come strumento – osserva Volpi – per «immaginare la vita». Inquadrare con rigore formale (o formalistico) l’umanità perfettibile tradisce appunto il tentativo di afferrarne il significato più profondo o almeno di comprovarne la complessità respingente e quindi la verità. Perché quando una cosa è troppo semplice da rappresentare, probabilmente non è vera. Una lezione che abbiamo imparato proprio nel cinema dei Monicelli e dei Risi, e forse dobbiamo ringraziare anche Lattuada perché coi suoi sforzi compositivi ci ha permesso di guardare al di là del quadro.

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