"L'estate d'inverno", di Davide Sibaldi

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Una stanza, una piccola porzione di spazio, ricavata all’interno di un motel, alla periferia di Copenaghen. Fuori la città, con le sue luci accese e le sue autostrade infinite. Grazie soprattutto alla bravura dell’interprete femminile, è possibile riuscire a cogliere degli spunti interessanti, nel primo lungometraggio del regista appena ventunenne, in concorso al nono Festival del Cinema Europeo

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L'estate_d'invernoCome protetti da quelle pareti che li separano dal mondo esterno, Christian e Lulù si stringono l'uno nelle braccia dell'altra, alla fine di un estenuante scontro. Una stanza, una piccola porzione di spazio, ricavata all’interno di un motel, alla periferia di Copenaghen. Un rifugio che si trasforma in prigione, la gabbia della vita, la tortura di una pelle che aderisce troppo stretta al proprio corpo, storpiando i tratti del viso, ormai ridotto a maschera di resistenza, a lapide emozionale. Fuori la città, con le sue luci accese e le sue autostrade infinite, lanciate verso l'ignoto di una nuova alienazione, lontano da un passato troppo doloroso. Dentro, il vuoto di una coscienza che si dibatte, cozzando contro il muro di una scricchiolante recita, unica salvezza apparente. Ed ecco Lulù tentare di sfuggire alla morsa di un senso di colpa mai cancellato. Più di una volta decide di andare via, di uscire fuori da sé, ma scostata la tenda, il mondo là fuori è ancora più crudele. Christian la provoca, le stringe intorno un cerchio sempre più stretto. Lei si divincola, apre quella porta, scappa. Poi torna, davanti allo specchio, per guardarsi finalmente dritta negli occhi. Nel frattempo la videocamera la (in)segue, come fosse sempre in ritardo, incapace di focalizzarsi per più di un istante sullo stesso soggetto. Il volto di lei sempre a destra o a sinistra di un’inquadratura costantemente in movimento, a simboleggiare il tumulto interiore, la lotta invisibile che si consuma sul fondo del cuore. Lotta poi rappresentata in maniera sensibile, fisica, dalle schermaglie tra lei e Christian, uomo e donna di fronte ad un'esistenza crudele, secondo un gioco di riflessi e rifrazioni, per cui l’una diventa immagine uguale, ma opposta dell’altro.

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Davide Sibaldi mette Pia Lanciotti e Fausto Cabra in una camera d'albergo. Due attori di teatro, famosi nell’ambiente della recitazione milanese, imprigionati nei ruoli che Sibaldi, autore del soggetto e della sceneggiatura de L’estate d’inverno, oltre che regista, ha cucito loro indosso, in una sorta di mascheramento al quadrato, inevitabilmente troppo distante dall'essenza delle cose. Parole urlate troppo forte o troppo piano, quasi sempre fuori luogo, traghettate da una gestualità ed una mimica facciale eccessivamente presenti e da una simbologia spiccia esibita fino alla fine (fra tutte la maschera di trucco che viene via insieme alla parrucca negli ultimi minuti del match Lulù/Christian). Tutti elementi che concorrono a rendere la pellicola letteralmente soffocata da una sovrastruttura formale e intellettuale molto spessa, capace di suscitare una sostanziale reazione di repulsione in chi guarda. Risulta difficile perciò, riuscire a farsi strada tra gli infiniti orpelli esteriori sotto i quali Sibaldi seppellisce le vite disperate dei personaggi attorno ai quali continua a girare, superare la diffidenza che un tale impianto filmico crea, ma non impossibile. Grazie soprattutto alla bravura di Pia Lanciotti, l’interprete femminile, (Fausto Cabra purtroppo non riesce proprio ad apparire credibile nella maggior parte dei casi), è possibile riuscire a cogliere degli spunti interessanti, delle schegge di passione, nel primo lungometraggio del regista  all'epoca delle riprese appena ventunenne. Non resta che aspettare.

 
Regia: Davide Sibaldi
Interpreti: Pia Lanciotti, Fausto Cabra
Distribuzione: Iris Film
Durata: 70'
Origine: Italia, 2007

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