LIBRI DI CINEMA – Guida al cinema di arti marziali, di Stefano Di Marino

Nuova edizione di un testo seminale su uno dei generi chiave del XX secolo: un viaggio tra divi e cinematografie, sempre legato alla celebrazione degli aspetti migliori del filone

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Quest’opera è un omaggio a quelle avventure che, nella sala di un vecchio cinema, mi permisero di scoprire un mondo del quale non avevo neppure sospettato l’esistenza”: le parole con cui Stefano Di Marino introduce la sua “Guida al cinema di arti marziali” circoscrivono subito l’intento di un’opera che, accanto alla riscoperta dell’action “a mani nude” vuole esaltare soprattutto il concetto di affabulazione. Un libro che, insomma, è come un viaggio tra eroi, filoni e divi, condotto con il piglio del narratore che sia capace di trasmettere non solo le utili informazioni per comprendere il fenomeno, ma anche il senso palpabile dell’eccitazione e dell’avventura, in una sola parola del “divertimento” che le pellicole trasmettono. Di Marino è molto chiaro e la sua chiusa è fra le più belle e sincere che si possano leggere su un libro del genere: “Perché scrivere un saggio su questo argomento? Semplice (…) I film di arti marziali sono divertenti. Vi sembra poco?” Gioverà infatti ricordare che l’autore, appassionato, saggista e istruttore, arbitro e cronista di arti marziali è anche e soprattutto un narratore, autore di svariati romanzi per collane come “Segretissimo” e “Giallo” della Mondadori, quindi uno che l’affabulazione la conosce senz’altro molto bene.

Non è comunque una scelta capricciosa o magari snob la sua, piuttosto una decisione figlia di una consapevolezza molto lucida: il cinema di arti marziali, al di là di qualsiasi teorizzazione o possibilità di approfondimento psicofisico e filosofico (che qualunque praticante sa bene essere importante quanto o più della lotta in senso stretto) è votato principalmente allo spettacolo e all’esibizione delle tecniche. Un leitmotiv che il libro reitera nei vari passaggi, non a caso quasi sempre riconducibili a una figura di attore/marzialista, di volta in volta capace di fornire al genere l’allure divistico necessario a perpetuare l’avanzamento delle sue istanze. Dopo le premesse del caso si parte così da quello che, anche dopo numerosi decenni, resta il personaggio più simbolico del genere, Bruce Lee. È molto interessante notare come Di Marino, all’interno dell’excursus biografico e cinematografico del “Piccolo Drago”, non risparmi l’aneddotica che nel tempo ha costruito il mito dell’attore sino-americano, spingendosi anche alle varie leggende che ne hanno circondato la scomparsa. Dopo aver costruito l’intero castello di carte, però, l’autore liquida altresì le varie ipotesi affermando il principio secondo cui “Bruce Lee inseguiva un sogno. Questo è importante”. Affermazione che fa pendant con l’altro aspetto più controverso, ovvero se Lee fosse realmente un grande atleta o soltanto un bravo performer cinematografico, complice il fatto che non ha mai conseguito premi o attestati formalmente in grado di stabilirne il valore: “Bruce Lee è stato realmente uno dei personaggi chiave per la diffusione e l’evoluzione delle arti marziali di questo secolo (…) Questi dati, più che qualche effimera gloria sportiva, testimoniano il vero valore di Bruce Lee come Maestro”. L’affabulazione, insomma, si nutre delle leggende, ma allo stesso tempo sa fermarsi di fronte alle congetture inutili e allo sciacallaggio, mantenendo sempre la barra dritta del racconto di un’epica. La prosa di Di Marino è animata perciò da uno sguardo etico, non ruffiano né furbescamente demistificatorio, ma al contrario sempre legato alla celebrazione degli aspetti migliori del suo genere preferito.

Da qui in poi si procede attraverso le altre figure simbolo del genere: Chuck Norris, Jackie Chan, Sammo Hung, Donnie Yen, Jet Li, Sonny Chiba, Chynthia Rothrock, Michelle Yeoh, Steven Seagal, Jean-Claude Van Damme, Tony Jaa, Iko Uwais, senza dimenticare realtà come la Shaw Brothers, la new wave hongkonghese degli anni Ottanta e la triste parabola di Brandon Lee, che permette la chiusura del cerchio rispetto alla vita del padre. Un percorso che è anche un modo per scoprire come il genere si sia adattato e modulato nel tempo, di concerto con l’ascesa e il declino delle cinematografie che lo hanno a più riprese corteggiato.

Il volume, uscito per i tipi di Odoya e che si inserisce nella sua collana delle “Guide” a generi cinematografici (e non solo) è in realtà la terza edizione aggiornata di quello che inizialmente era “Bruce & Brandon Lee”, un saggio uscito alla metà degli anni Novanta per Sperling & Kupfer, e poi riproposto per Alacran come “Dragons Forever. Il cinema marziale”. Rispetto alle precedenti edizioni, l’autore ha aggiunto le scoperte più recenti del genere (come i già citati Jaa o Uwais) e ha precisato meglio la reperibilità di molti titoli. Il grosso dell’opera rimane comunque quello che già conosciamo, al punto che spesso definisce “recenti” titoli che invece risalgono agli anni Novanta (erano recenti ai tempi della prima edizione insomma!), ma questo è un po’ uno scotto da pagare al trend del continuo aggiornamento di opere nate e definite in un particolare momento. Chi ha già una o entrambe le precedenti edizioni valuti dunque con cautela se effettuare l’ennesimo upgrade. Per tutti gli altri, invece, questa edizione definitiva di un testo seminale per informazioni, analisi e completezza sul genere resta assolutamente imperdibile.

Guida al cinema di Arti Marziali
di Stefano Di Marino
Odoya, 2019
352 pp, 22 euro

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