LIBRI DI CINEMA – "Kim Ki-duk" di Andrea Bellavita

Bellavita è riuscito a scrivere un libro interessante, preciso, a tratti illuminante e avvolgente come il cinema di Kim Ki-duk. Alla ricerca di possibili ritorni, immagini ricorrenti, suggestioni, metamorfosi di stile e di sguardo, all'interno di una filmografia complessa e ancora tutta da scoprire

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KIM KI-DUK

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Andrea Bellavita


Editrice Il Castoro


Finito di stampare in ottobre 2006


185 pag. – 12,50 euro


 


Personaggio ambiguo e difficile Kim Ki-duk. Non rilascia quasi mai interviste (le poche le concede solo alla stampa europea), assolutamente avulso dal panorama coreano e orientale tout court, autodidatta proveniente dalla pittura privo di qualsiasi influenza cinefila, ha sempre cercato un linguaggio istintivo fondato su simbolismi astratti che il più delle volte travalicano ogni possibile coerenza tematica. Realizzare un libro sul cineasta coreano poteva essere quindi un'esperienza unica e stimolante quanto difficoltosa. Eppure Andrea Bellavita è riuscito nell' "impresa" di scrivere un Castoro nuovo e interessante, preciso, a tratti illuminante e avvolgente come il cinema di Kim Ki-duk.


Consapevole dell'impossibilità di tracciare un unico profilo d'autore e una poetica intenzionale che siano capaci di legare tra loro i lavori del regista dall'esordio Crocodile all'ultimo Time, Bellavita parte dall'analisi di ogni singolo titolo alla ricerca di possibili ritorni, immagini ricorrenti, suggestioni, metamorfosi di stile e di sguardo. Innanzitutto Kim Ki-duk viene considerato come il regista del "conflitto", sia di natura interiore e relazionale, che sociale e politico. La frattura diventa allora l'elemento più ricorrente nelle sue opere. Ed è una frattura che vede nella ferita fisica e corporea (così insistentemente esibita ne L'isola, e nei primi Wild Animals e Bad Guy) le risultanti più immediate, ma non le uniche rintracciabili. Il cinema dell'autore coreano è infatti, secondo Bellavita, anche un cinema sulle ferite geografiche e culturali (Address Unknown) e sull'impalpabile confine che separa la vita e la morte, il reale e il fantastico. In tal senso viene giustamente notato come il termine di "realismo astratto", spesso usato dallo stesso regista, possa facilmente sostituirsi con "realismo magico". Ed è qui che il Castoro di Bellavita giunge alle conclusioni più affascinanti, inserendo la cinematografia di Kim Ki-duk in una traiettoria molto personale ma non del tutto lontana dal genere fantastico, "inteso come narrazione onirica, come chiave per rompere il 'quotidiano troppo reale', ma soprattutto come luogo dell'indecidibilità e dell'apertura del senso". Dalla "strega del lago", ambigua e perversa protagonista sadomasochista del controverso L'isola, all'inquietante riferimento alla metempsicosi suggerito in Primavera, estate, autunno, inverno e ancora…primavera, dalla piccola prostituta Jae-young del primo episodio de La samaritana (qui suggestivamente interpretata come proiezione mentale della protagonista Yeo-jin) al giovane "ospite invisibile" Tea-suk di Ferro 3, il cinema di Kim Ki-duk pare costantemente costellato di fantasmi, spesso inquietanti e maledetti, altre volte semplicemente (o apparentemente?) indifesi e passivi. Tutti personaggi inseriti in storie sempre in bilico tra la parabola e la favola gotica, in cui i confini tra buono e cattivo vengono continuamente a confondersi, persino nelle operazioni apparentemente più rasserenanti (vedi Primavera, estate, autunno, inverno, e ancora…primavera). Quelli di Bellavita sono quindi elementi e riflessioni utili per indagare con strumenti nuovi l'opera, forse ancora tutta da scoprire, di uno dei registi più importanti emersi negli ultimi dieci anni.

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