LOCARNO 67 – From What Is Before (Mula sa kung ano ang noon), di Lav Diaz (Concorso)
Lav Diaz torna sulla sua maledizione, quella delle stesse Filippine: la dittatura di Marcos, raccontata lateralmente, negli effetti devastanti su un piccolo villaggio e i suoi abitanti tra il 1970 e il 1972, anno della proclamazione della Legge Marziale. Conflitto struggente tra precarietà dell'elemento umano e immutabilità di mito e natura. La recensione del Pardo d'oro del 67° Festival di Locarno

"These are cursed times", dice nel finale Sito ad Horacio, che prima di morire lo prega di bruciare il suo cadavere lungo il fiume. "Ma non abbiamo visto la maledizione venire. Forse se avessimo guardato da vicino e avessimo unito i pezzi…".
Guarda da vicino, invece, Lav Diaz, unendo tutti i pezzi, i frammenti necessari. La sua maledizione, quella delle Filippine, è ovviamente la dittatura di Marcos, raccontata lateralmente, negli effetti devastanti su un piccolo villaggio e i suoi abitanti tra il 1970 e il 1972, anno della proclamazione della Legge Marziale, ascoltata dalla viva voce del Comandante sul piano d'ascolto, col riso crudele, dei suoi fedelissimi soldati.

Diaz tiene le fila di queste esistenze, dei rituali che ne scandiscono le giornate e su cui il film apre e chiude il suo racconto, in un conflitto struggente tra ciò che c'era prima, il mito, la natura, il rito stesso, e la precarietà, la frammentarietà dell'elemento umano. Così come preesistente, eterno, sembra essere il cinema, che quella porzione di realtà racchiude, e che il cineasta filippino vuole riportare "al centro del villaggio". I suoi protagonisti entrano in scena attraversando l'inquadratura e abbandonandola, mentre la natura – e l'immagine – resta in campo, deserta, immobile, potente.
È la cifra del suo cinema e che trova qui l'apice nella sequenza di sconvolgente bellezza, in cui una disperata Itang porta sulle spalle la sorella malata Joselina verso la roccia sacra dove tante volte ha pregato per la sua guarigione. O nel finale in cui il corpo ardente di Horacio attraversa analogamente il fiume finendo in fuori campo, metonimia di un destino collettivo.

Una compattezza che investe anche la forma: l'amore per il bianco e nero, i campi lunghi, la profondità di campo, perché tutto sia sempre assolutamente visibile. Come il dolore di un popolo, connaturato ai luoghi, quotidianamente esperibile come il vento o la pioggia battente. E che viene forse da un sempre rinnovato stupore per l'esistenza, affidato di nuovo alle parole dei suoi protagonisti "Ancora non so cosa sia la vita. Per me rimane un grande mistero".