#Locarno70 – Iceman, di Felix Randau

Continuano le proiezioni serali in Piazza Grande e stavolta è il turno di Iceman, di Felix Randau, una ricostruzione a dir poco maniacale dell’era neolitica (5300 anni fa ca.).

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Se la narrativa e di conseguenza la volontà di ricostruzione spazio-temporale fossero appannaggio di un singolo, il cinema, così come altre forme d’espressione/comunicazione, avrebbero smesso i panni del racconto già da tempo. Eppure di fronte ad un film come Iceman viene da chiedersi, a torto o a ragione, dove sia e quale sia la percentuale di senso. Felix Randau, ispirato dal ritrovamento di un cadavere della specie Neanderthal, ci catapulta nell’era neolitica (5300 anni fa ca.) e più esattamente in un villaggio/tribù delle Alpi Venoste; Kelab è il patriarca/sacerdote del gruppo e mentre si trova impegnato in una battuta di caccia, alcuni membri del clan rivale razziano e trucidano la sua famiglia e il resto della tribù. Unico sopravvissuto un bambino, che Kelab porterà con sé nella sua furia vendicativa.

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La nostalgia per un’epoca, forse più della nostra, incastonata sul suolo in cui viaggia. Randau non vuole mancare l’atterraggio; la sua impalcatura precisa, ortodossa, basati pensare alla lingua, una variante estinta del retico, ha l’ambizione di cancellare la sovrastruttura, di azzerare l’artificiosità del linguaggio, una bestemmia al cospetto di esistenze così “naturali”. Traslando il nostro DNA, nelle sue accezioni istintuali e non, il regista prova una decodifica di quel reale ai confini del fantasy, e lo stesso sacrificio linguistico dovrebbe colmare la distanza fra noi e loro. Perché imporre un sottotitolaggio, e quindi una comprensione, quando il sentire travalica i castelli percettivi? Tutto si inchina alla

963980 potenza dei lati, che siano verticali od orizzontali. Da qui la mdp ballerina, pedinatrice, circospetta, come se cercasse qualcosa nell’immagine che riflette, e non solo nel susseguirsi di eventi. Così la musica, ambient e strumentale, è anch’essa vittima del sacrificio lessicale, ed interprete di quella parziale incomunicabilità. Ma allora perché affidare alla vendetta, alla sete di sangue, all’amore/timore per-del defunto e del nuovo nato il focus principale? Quelle grida, quei sospiri, gemiti, non bastano a squarciare lo schermo; la malinconia e la rabbia di Randau/Kelab si perdono nell’ambizione maniacale di restituire quell’universalità, quel fil rouge capace di connetterci con i tempi in cui mai potremo esistere. E allora l’opera ricostruttiva diventa reportage etnologico, quanto di più lontano dal senso dell’arte.

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