Massimo Girotti, attore di cinema

Girotti ha rappresentato un caso a sé, per come ha saputo farsi, egli stesso, "corpo-cinema", capace di superare gli evidenti limiti espressivi attraverso una fisicità prepotente e mai banale. Quasi come un Clint Eastwood "ante litteram" in buona parte dei suoi film ha sempre preferito privilegiare la secchezza, l'asciuttezza, la sottrazione

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Non m'importa se le commemorazioni sanno di muffa o se, invece, servono a tener vivo un ricordo. Fondamentalmente non m'importa nemmeno di commemorare qualcuno, dato che in questo caso il ricordo resta, da solo, ben vivo nei cuori e negli sguardi di chiunque abbia avuto la (s)ventura di vivere nell'Italia del secondo Novecento. So soltanto che domenica mattina è morto Massimo Girotti e che – senza bisogno di riflettere più di tanto sulla cosa, anzi correndo il serio rischio di affogare nella retorica – mi va d'assecondare il mio bisogno di "salutarlo" e, sinceramente, dirgli grazie.

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Massimo Girotti, infatti, è stato l'inconsapevole bussola – per me e per tanti altri compagni dei corsi di Storia del cinema, nella Napoli universitaria d'inizio anni Novanta – lungo l'eccitante e accidentato percorso d'avvicinamento a una tra le stagioni più vitali ed eversive (linguisticamente e ideologicamente, che poi è la stessa cosa) del cinema industriale italiano: quella che propose la saldatura tra il confronto-scontro con la ribollente realtà circostante e le dinamiche narrative proprie dei generi filmici tradizionali. Nel panorama cinematografico dell'immediato secondo dopoguerra, Girotti ha rappresentato un caso a sé, per come ha saputo farsi, egli stesso, "corpo-cinema", capace di superare gli evidenti limiti espressivi attraverso una fisicità prepotente e mai banale (in questo davvero poco italiana, fin dal semplice aspetto esteriore). Quasi come un Clint Eastwood "ante litteram", infatti, in buona parte dei suoi film ha sempre preferito privilegiare la secchezza, l'asciuttezza, la sottrazione, anche a rischio d'assumere caratteristiche da ulteriore elemento (ma sempre preponderante, comunque) del paesaggio nel quale, di volta in volta, veniva calato dai suoi registi.

I risultati più eclatanti di questa "poetica" del "perfetto attore cinematografico" sono stati raggiunti in un film,  "In nome della legge" di Pietro Germi, forse tra i " western all'italiana" più belli di sempre.  La fusione tra il "corpo" di Girotti (o meglio, il "Corpo-Girotti") e gli altri elementi (vegetali e minerali) presenti nella "realtà-set" appare talmente perfetta da far venire in mente l'effetto morphing di "Terminator 2", con la sagoma liquefatta del T1000 che, imperiosamente, assume via via consistenza solida: nel caso di Massimo Girotti, sulle spigolose colline ciociare così come tra le polverose praterie siciliane, quasi che si trattasse di un albero tra gli alberi, ma miracolosamente in grado – sempre! – di catturare su di sé, all'istante, gli sguardi della platea cinematografica (e la medesima cosa accade anche, volendo citare altri esempi, in "Ossessione" di Luchino Visconti, "Cronaca di un amore" di Michelangelo Antonioni e "Un marito per Anna Zaccheo"  di De Santis: gli ultimi due ambientati in contesti urbani).


Girotti, insomma, ha saputo utilizzare il proprio corpo (il volto, il torace…) come "mappa" sulla quale incidere le coordinate della sua personale idea di cinema. E nella spericolata sintesi tra il fare di se stesso il set-paesaggio dei suoi film e l'ergersi, al loro interno, quale assoluto protagonista della scena – discreto e debordante suo malgrado – sta l'assoluta "cinematograficità" di Massimo Girotti, attore di cinema.


 

 

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Intervista

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