MOVIEGAMES – Fotografando fantasmi

“Project Zero” vs. “Resident Evil”: fotografare i fantasmi è meglio che andare a caccia di zombi?

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Questo mese parliamo di horror elettronico, ma non, come forse ci si potrebbe attendere, dell'ultimo episodio di Resident Evil, appena uscito per il GameCube di Nintendo. All'horror nipponico ma di smaccata derivazione occidentale (non a caso il nume tutelare della serie è Romero) preferiamo stavolta un horror nipponico d.o.c.: Project Zero. Sviluppato da Tecmo e distribuito in Italia da C.T.O. (la versione, per PS2 e Xbox, è quella inglese con i sottotitoli in italiano), si tratta di una storia di fantasmi in cui l'ambientazione, i protagonisti, gli stessi fantasmi, sono di chiara ispirazione orientale.

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Non è forse un caso che le storie di fantasmi, all'interno del genere horror, abbiano più di tutte le altre sofferto delle modificazioni apportate dallo splatterpunk all'occhio del lettore/spettatore. I fantasmi, costituiti dalla materia di cui sono fatti i sogni, non riescono ad esibire viscere, crani scoperchiati, corpi maciullati e sono quindi stati messi da parte. Anche in Shining, grandiosa storia di fantasmi del re per antonomasia dell'horror, essi devono per fare paura consustanziarsi nell'Overlook Hotel e soprattutto farsi carne e sangue tramite Jack Torrance per spaventare il lettore. La storia di fantasmi classica infatti non vive sui dettagli, ma piuttosto sull'atmosfera: sulla sensazione di disagio, quasi immotivata ma non meno pesante, che riesce ad incutere nel lettore. Già Silent Hill si era cimentato nell'horror d'atmosfera, ma lì pure era infine necessario imbracciare il fucile e trapassare i mostri di turno con dei buoni, solidi pallettoni. Project Zero al contrario decide di puntare (quasi) tutto sull'immergere il giocatore in una storia in cui la paura va affrontata senza armi in mano. Quasi perché in realtà un'arma c'è: ma si tratta di una macchina fotografica.

Mafayu Inasaki è alla ricerca di un grande scrittore, Junsei Takamine, che con due assistenti non è più tornato dal palazzo Himuro. Takamine pensava di trovare prezioso materiale per un romanzo nel palazzo in rovina, una volta abitato da sanguinosi proprietari dediti a misteriosi, magici rituali. Mafayu trova prove nel palazzo della presenza dello scrittore, ma improvvisamente anch'egli scompare. Tocca dunque alla sorella Miku ripercorrerne le tracce. Come il fratello, Miku ha ereditato dalla madre una sensibilità speciale che le permette di avvertire le anime dannate vicine. A propria difesa ha la macchina fotografica del fratello che, unita alla sua dote, le permette di fissare sulla pellicola l'"aura" dei fantasmi privandoli nel contempo dell'energia che permette loro di fare del male agli esseri umani. Ma la sua non è tanto una "caccia ai fantasmi": piuttosto l'intento di Miku – e di conseguenza il nostro che controlliamo le sue azioni – è di ritrovare il fratello e, per fare ciò, dovrà non solo ricostruire il percorso dello scrittore Takamine, ma anche le sue scoperte (tramite frammenti di diari, di articoli di giornale, di nastri audio, di antiche pergamene, disseminati lungo stanze, corridoi, giardini dell'imponente edificio) sugli antichi rituali di sangue che si tenevano anticamente nel palazzo e sulla misteriosa rottura di cinque leggendari specchi che avrebbero tenuto lontani i demoni e la "catastrofe".

Come in ogni "survival horror" che si rispetti dunque dobbiamo affrontare esseri sovrannaturali ed enigmi, ma i primi fotografandoli, ed i secondi tenendo conto che spesso si rifanno ad elementi tipici della cultura orientale (gli ideogrammi al posto dei numeri, ad esempio, nelle serrature "a combinazione") tanto da dover a volte fare spudoratamente ricorso alla soluzione. Ma tutto ciò raramente distrae dalla suggestione della storia: il suo vero motore non è il confronto con fantasmi o enigmi ma piuttosto il sapiente intreccio delle tre vicende – gli antichi rituali del palazzo, le ricerche dello scrittore, la "quest" di Miku – in cui ogni nuovo indizio è al medesimo tempo un pezzo del puzzle ed un nuovo mistero. E' vero che la necessità di "upgradare" la macchina comprando miglioramenti (dove? da chi?) con i punti ottenuti scattando istantanee agli ectoplasmi è quanto di più assurdo ed artificioso poteva essere ideato. E' vero anche però che questo difetto viene cancellato dal pathos di un'ambientazione perennemente notturna con toni perennemente sporchi ed avari di colore, in alcuni casi (i ricordi, le visioni) addirittura in un bianco e nero sfocato o splendidamente sovraccarico, tanto da rendere lecito in questo caso usare il termine "fotografia". La fotografia come elemento cinematografico viene del resto esplicitamente richiamata dall'utilizzo della macchina con cui è possibile catturare l'energia degli spettri. Il tipo d'inquadratura usato è la classica terza persona (tranne quando Miku osserva il mondo attraverso l'obiettivo in cui noi giocatori arriviamo ad identificarci col suo sguardo) di volta in volta sopra, davanti, dietro, di fianco alla protagonista a sottolineare gli ambienti e la drammaticità della situazione.

In conclusione una sorpresa gradita per chi da un videogioco non richiede solo azione incalzante ma anche storie coinvolgenti, ricche e ben raccontate. Un altro tassello da inserire in quella sorta di "adventure-reinassance" di cui abbiamo già parlato anche nel precedente articolo a proposito di Syberia: la sempre maggiore importanza che nel mondo videoludico torna ad avere la storia e la sua narrazione, la sempre maggiore rilevanza che in questo mondo inizia oggi ad avere ciò di cui chi è abituato al cinema non immagina neppure l'assenza – la sceneggiatura.

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