OSCAR 2015 – Birdman, o l’imprevedibile narcisismo di Hollywood

inarritu in birdman
Con previsioni (quasi) scientifiche avevamo annunciato la vittoria del film di Inarritu. Hollywood celebra se stessa e fa contenti i suoi addetti ai lavori premiando il film più elegante e vuoto della stagione. Di fronte all’artificio non c’è gloria per la vita (Boyhood) e la guerra (American Sniper)

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Come volevasi dimostrare Hollywood applica i suoi teoremi con minuziosa precisione e messaggi in codice non troppo nascosti. Se la critica aveva scelto Boyhood di Linklater come film dell’anno e il pubblico il controverso American Sniper, l’industria cinematografica ha alzato le barricate, recintato il suo territorio e incoronato il film più elegante e vuoto della stagione. Parola d’ordine narcisismo. The Show must go on… meglio ancora se si parla del mondo dello spettacolo proprio dall’interno, magari simulando un impossibile piano sequenza. Datemi un film che abbia ritmo, che sia ben girato e interpretato, che mi faccia sentire un po’ intellettuale e un po’ bambino… datemi un film così e lo inonderò di premi! deve aver pensato la maggioranza dei giurati dell’Academy. Birdman a ben vedere è una macchina perfetta: una bella scatola senza niente dentro – per citare un’osservazione dell’amico Francesco Maggi – dove entrano ed escono supereroi anni ’80 (con Michael Keaton che con meno dolore e sincerità riprende la messa in mostra autobiografica del Mickey Rourke di The Wrestler), attori in crisi di identità, Broadway, Carver, successo e fallimento, il confine indiscernibile tra arte e vita e la critica che scrive di cinema e teatro senza capirci nulla. Forse Bergman ne avrebbe tratto un capolavoro. Forse anche il miglior Woody Allen ci sarebbe riuscito. Alejandro G. Iñárritu a nostro modo di vedere ha pensato più alla forma che alla sostanza, più all’ambizione masturbatoria che alla scommessa di una visione concretamente personale.

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Birdman è così l’effetto speciale di un’industria che preferisce l’artificio alla vita di Boyhood e alla spietata guerra di American Sniper, ovvero i due film migliori tra quelli candidati, scandalosamente onorati con un solo riconoscimento a testa. Nell’ottica dello spettacolo e della sua celebrazione innocua possono però esser visti anche gli altri due film che hanno vinto il maggior numero di Academy: Grand Budapest Hotel (4 riconoscimenti “tecnici”, tra cui i costumi a Milena Canonero) e il sopravvalutatissimo Whiplash (Attore non protagonista, Montaggio, Suono). Un podio che davvero sembra promuovere l’idea di un cinema stilizzato verso il museo storico (nel caso dell’ultimo Wes Anderson) e muscolare nella sua idea estetica di esercizio tecnico da ripetere ossessivamente (il film di Chazelle).

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La sensazione è che ormai Hollywood si stia sempre più ghettizzando e trasformando in una casta lontana dalle urgenze del mondo. È una deriva che avrebbe un senso se pensiamo alla relativa importanza che il cinema sta ricoprendo nella società contemporanea, alimentata da tutta una serie di immagini e visioni sempre meno legate all’immaginario del grande schermo.

 

Certo gli Oscar non sono mai stati un serio indice di modernità, ma forse in questi ultimi anni lo stanno diventando ancora meno. Prendiamo i film che hanno vinto il massimo premio nelle ultime quattro edizioni:

2012 – The Artist

2013 – Argo

2014 – 12 anni schiavo

2015 – Birdman


Se togliamo il caso del film di Steve McQueen, dedicato al tema della schiavitù, gli altri tre vincitori sono tutti film che parlano di Hollywood e del mondo dello spettacolo. La tendenza è chiara. Siamo quasi all’autocelebrazione. È il caso che qualcuno faccia capire ad attori, registi, sceneggiatori e produttori che non sempre sono così interessanti.

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