"Quella scena di Quarto potere faceva davvero schifo", intervista a James Mangold.

Una partenza da neolaureato enfant prodige alla Disney e un'altrettanto veloce ricaduta. L'apprendistato con Milos Forman e Sandy Mackendrick, i maestri e il valore delle scuole di cinema. Il regista di Copland si racconta a MOVIEMAKER. Ascesa discesa e risalita fuori e dentro Hollywood, fino al suo nuovo film il thriller “Identity” con John Cusack

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Nel 1985, a 21 anni, James Mangold era l'invidia di ogni aspirante cineasta. Solo poche settimane dopo la laurea alla Cal Arts, conquista un contratto di formazione alla Disney, si procura un agente all'ICM e scambia telefonate con Michael Eisner e Jeffrey Katznberg. Ma le cose non vanno come nei piani. Dopo tre giorni di riprese è licenziato dal suo primo impegno come regista e alla fine del primo anno il suo contratto con Disney non viene rinnovato: "Mi sono sentito a terra" ricorda Mangold, "Mi sembrava di avere mandato all'aria tutto quanto". Alla fine, decide di tornare a studiare cinema, questa volta alla Columbia, dove trova un mentore, Milos Forman, che contribuisce a portare a termine il viaggio mentore-studente che Mangold aveva avviato con il regista Sandy Mackendrick (Piombo Rovente), durante il suo precedente lavoro presso la Cal Arts.


Mangold scrive Heavy mentre studia sotto lo sguardo del premio oscar Forman (Amadeus, Qualcuno ha volato sul nido del cuculo) e quel film, finanziato indipendentemente da Mangold insieme ad alcuni familiari e amici, arriva a vincere il premio della giuria al Sundance Film Festival del 1996. Dopo il successo di Heavy, Magold si ritrova, a 32 anni, a dirigere Robert De Niro, Harvey Keitel, Ray Liotta e Silvester Stallone in Copland. Durante le riprese di Copland incontra un importante collaboratore, la produttrice Cathy Konrad (Scream, Citizen Ruth, Kids). […] Dopo di che i due si sono sposati, e Cathy Konrad ha prodotto tutti i film successivi di Mangold, Ragazze interrotte, Kate & Leopold e l'ultimo, il thriller Identity.


 


MovieMaker: Hai ottenuto un contratto come collaboratore ai soggetti della Disney all'età di 21 anni. Hai pensato di essere arrivato?


James Mangold: In definitiva non ero arrivato da nessuna parte. Era una strada accidentata. Un po' come venire catapultato in un mondo nel quale non sapevi nemmeno quanto eri fortunato perché non è che avessi lottato molto per arrivarci. Mi sono laureato alla Cal Arts in giugno e in agosto già scrivevo dentro al mio ufficio alla Disney. […]


MM: Il tuo contratto alla Disney non venne rinnovato alla fine dell'anno. Come ti sei sentito a quel punto?


JM: Quando me ne andai dalla Disney, mi sentivo più a terra che mai. E la cosa divertente è che una volta tornato a studiare alla Columbia, ero la personificazione del peggior incubo di ogni studente. Mi ero laureato a scuola di cinema (la prima volta) con un corto di successo, avevo firmato un contratto con uno studio e l'anno successivo ero a piedi, senza una meta. Nessuno dei miei compagni voleva sentire la mia storia perché tutto ciò che desideravano era avere le opportunità che avevo avuto io a 21 anni. […]


MM: Hai mai pensato di lasciare tutto?


JM: Certo. Ho pensato di diventare scrittore. Ho cominciato a scrivere racconti e poesie e a mandarle ai vari quadrimestrali per avere dei commenti. Alla fine ho chiamato il preside della UC Irvine Creative Writing School e lui mi ha detto che se a 22 anni ero arrivato dove ero arrivato mi conveniva continuare su quella strada. Avevo bisogno di un mentore. È la ragione principale per cui sono tornato a scuola di cinema. Alcuni sminuiscono queste scuole dicendo "a che servono quando puoi imparare tutto ciò che ti serve guardando dei buoni film?". Il che è vero, sotto molti aspetti. Ma in quel modo una delle cose che ti perdi è la comunità. Se lavori all'interno del business, sono tutti così affamati che nessuno ha tempo per te.

 


MM: Quali sono le cose più importanti che hai imparato dai tuoi mentori, Milos Forman e Sandy Mackendrick?


JM: Sandy era un uomo brillante, ma aveva un sacco di regole formali su come girare -dove deve stare l'esposizione, come strutturare le cose, come funzionavano le storie dall'epoca degli antichi greci. La vera lezione che Sandy mi ha dato è stata che se io mi presentavo con una sceneggiatura di dieci pagine per un corto, il giorno dopo lui me ne portava undici di note. Non ti faceva soltanto credere in te stesso, faceva in modo che tu ti prendessi sul serio, perché così faceva lui. E mi ha anche insegnato quanto duro lavoro c'è dietro a un film. Anche Milos è stato un grande maestro di scrittura. Sfogliava una sceneggiatura con me e mi diceva "questo va bene, questo no, questo è così così". Era tutta una questione di trovare dei momenti all'interno di una sceneggiatura. Ho scritto Heavy mentre studiavo con Milos.


[…]


MM: Identity è il primo film in cui non appari tra i credits come sceneggiatore. È stata una sorta di liberazione?


JM: No, non credo. La cosa strana è che quando dirigo qualcosa che ho scritto io, continuo comunque a pensare all'autore della sceneggiatura come a un altro. Quando arrivi sul set e una battuta non funziona il regista dentro di te dice "Accidenti a quello sceneggiatore idiota". […]


MM: Tu hai sempre saputo mettere insieme dei cast interessanti, soprattutto nei ruoli minori.


JM: E' la parte più critica, a cui Cathy ed io prestiamo molta attenzione. Senza certi ruoli un film può risultare incompleto. Anche se stai realizzando un film come studente, si capisce benissimo se hai chiesto a uno dei tuoi amici di fare l'uomo delle consegne. Fanno sempre pena, ed è una catastrofe. Mentre scrivo e dirigo, faccio sempre in modo che ogni personaggio abbia un momento in cui asserire sé stesso- quasi un'aria. Perché ho visto film distrutti dall'assenza di questa attenzione.


MM: Come ti è venuta l'idea di scritturare John Cusack come protagonista di un noir-thriller?


JM: Sia io che Cathy pensavamo che John fosse perfetto per questo ruolo. Se pensi a film come Rischiose abitudini, ti rendi conto che non è un passaggio così drastico. Avevo incontrato John un paio di volte e lui ha quest'aria da "everyman". E a fianco di questo calore che emana, soprattutto andando avanti con l'età, c'è anche un senso di semplicità, di gravità. John esprime una sorta di solidità.


MM: Hai girato Identity negli studi della Sony?


JM: Si. Se aveste assistito alle riprese sareste stati sconcertati. Circa il 95 per cento di quello che si vede nel film l'abbiamo costruito in studio. È incredibile cosa non siamo riusciti a fare usando il teatro di posa. Mi ha permesso di fare un film più forte. Voglio dire, ottenere la pioggia e la notte on location, è davvero straordinario. È tutto molto più difficile quando devi controllare tutti gli elementi e allo stesso tempo preoccuparti della composizione del film.

 MM: E così hai girato come avrebbe fatto un vecchio regista della Hollywood classica?


JM: Già. Fare un film non è mai un lavoro dalle 9 alle 5, eppure mi sono ritrovato a cenare a casa, cosa inusuale per me quando giro un film. In questa circostanza c'era un che di metodico. E per molti aspetti è una delle ragioni per cui questo film mi interessava. La vera star era l'affabulazione.


Sono un grande fan dei film girati in single location, che si tratti de La finestra sul cortile o altro. […] È quasi l'opposto dell'espressione "liberamente ispirato" che spesso si applica agli adattamenti cinematografici di romanzi o testi teatrali. A mio avviso, alcuni dei film più cinematici venivano "liberamente trattati" senza cadere nell'ovvio. Si mantenevano all'interno del loro mondo e si dicevano "in qualche modo ora apriremo le porte di questo specifico mondo". […]


MM: Ti piace porti questo tipo di limitazioni?


JM: Mi piace, è come avere un ostacolo molto concreto e formale. Come quando ho fatto il mio primo film, Heavy. Mi sono messo in testa di fare un film silenzioso, quasi una risposta a quei film rock and roll, ironicamente iper-violenti che circolavano all'epoca. Mi sono impegnato a fare qualcosa su scala molto ridotta. E in [Identity], quello che volevo fare è prendere un po' dell'esuberanza e delle esagerazioni dei film dell'orrore, e unirlo ad attori con più classe e a un miglior lavoro sul personaggio, e anche l'insieme temerario di imprevisti che faceva parte del materiale.


MM: Molti slasher films si eliminano da soli comunque


JM: E' come un assolo di chitarra.  Ci sono volte nei film in cui puoi spingerti davvero in là, e questo non è solo vero per il gore, ma per qualsiasi tratto stilistico. Dove arrivi al punto di dire "è più importante che tu mi riconosca, mentre faccio la mia piccola aria per film, che rimanere nei limiti della storia che ho costruito". È sempre questa la battaglia, per me almeno. Credo che il grande maestro di questo equilibrismo fosse Hitchcock. Ha fatto molto spesso delle cose incredibili di cui si poteva parlare a livello atletico, come una ripresa che si allunga dal soffitto fino a inquadrare una chiave nella mano di qualcuno. Ma si trattava di elementi della storia!


MM: E queste cose non le noti se non alla seconda o terza visione…


JM: Oppure quando qualcuno te la indica. Ma è così spontaneo in lui. Il mio film di Hitchcock preferito è L'ombra del dubbio, con quelle incredibili scene a cena dove si vedono Joseph Cotten e tutti gli altri attorno al tavolo. È lì che si vede quanto è grande Hitchcock. È lì che si vede la grandezza di alcuni registi.


[…]


MM: C'è sempre questa sensibilità acuta nei confronti del dettaglio nei tuoi film. Sono dettagliati in maniera intricatissima, dalla composizione dell'inquadratura al production design, ai passaggi di montaggio.


JM: I dettagli sono la chiave di tutto. I film vivono solo per quell'attenzione. Credo che ogni film abbia i suoi difetti. Una cosa che può davvero paralizzarti come cineasta è guardare qualcosa come Quarto Potere, e chiederti come puoi solo pensare di giocare nello stesso parco-giochi. Ma se lo guardi come se l'avessi fatto tu, può capitarti di dire "hey, quella scena faceva schifo". Magari la scena precedente e quella successiva sono fantastiche, ma anche in quella scena brutta ci sono dei grandissimi dettagli, che si tratti di un elemento scenografico, uno sguardo o altro.


MM: Senti di essere un cineasta diverso da quello che saresti diventato se la tua esperienza alla Disney fosse andata diversamente?


JM: Non so […] Sono solo contento di essere un po' più adulto e maturo riguardo il cinema ora. Forse se avessi avuto più successo allora avrei fatto due o tre film e poi mi sarei bruciato. Non so. In tutti i modi, credo che sotto sotto sia stata una benedizione, perché dopo essere ritornato a scuola di cinema ho imparato meglio la differenza tra voler fare film e avere bisogno di fare film.
Per  tutte le persone che ho incontrato tra gli ultimi anni '80 e i '90, gente che veniva dalla scena indipendente, si trattava di fare un film perché chi vi stava dietro decideva che doveva succedere. Che si trattasse di un milione di dollari provenienti dall'estero, di dieci milioni forniti da uno studio o di duecentomila raggranellati tra amici e famigliari. Erano film che dovevano essere fatti.

 

"The art and business of making movies" è lo slogan di Moviemaker, che questo mese arriva al suo cinquantesimo numero. Quadrimestrale per addetti ai lavori come ce ne sono tanti negli Stati Uniti, Moviemaker si distingue per una buona varietà di contenuti e una certa indipendenza.  Il suo sito è ricco e dettagliato, e quasi tutto è disponibile on line.  Gli articoli sono equamente divisi seguendo il criterio dei credits di un film: regia, sceneggiatura, montaggio, e così via, in modo che tutti gli aspetti del cinema vengano toccati in ogni numero con completezza e con un anomalo rispetto verso tutti coloro che contribuiscono alla riuscita di un film. Accanto a queste sezioni e agli articoli di copertina, figurano poi rubriche dedicate al digitale o a gli indipendenti. Particolarmente utile e interessante per chi vive e lavora in America (di volta in volta compare un servizio su una diversa città statunitense e la sua scena cinematografica), Moviemaker è una lettura seria e interessante per chiunque voglia avvicinarsi al cinema da un punto di vista professionale, o più semplicemente spiarlo da angolature differenti.

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