RASSEGNE – Le Avanguardie e l'esperienza originaria

Al Filmstudio di Roma di scena (fino al 5 maggio) le Avanguardie francesi degli anni venti e trenta. Sincretismi artistici per astrazioni "oggettuali" e attrazioni regressive verso il "cinema ottico" dei pionieri.

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È nella logica di una sistematica violazione del modello rappresentativo-narrativo della visione, cioè di un modo di organizzare il visibile fondato sulla sua riduzione a una catena di rappresentazioni dominate dalla narratività, che si colloca il movimento avanguardista europeo dei primi del novecento. Le Avanguardie francesi però si sono spinte più in la, stringendo forti legami con le pratiche della spettacolarità della nascente cultura di massa (di cui il cinema è una delle tante manifestazioni) come strumenti per un progetto di fuoriuscita dallo statuto stesso dell'arte. Dice Tristan Tzara: "C'è un grande lavoro distruttivo, negativo da compiere e l'arte non è una cosa seria, dico sul serio". Il cinema dadaista, attraverso il sincretismo dei mezzi usati (declamazione di manifesti, esposizione di oggetti e quadri, proiezioni), vuole investire la totalità delle forme d'espressione. Retour à la maison (1923) di Man Ray, è confezionato all'improvviso, è una sorta di collage nato assemblando in laboratorio di montaggio spezzoni eterogenei di pellicola. È un film che sembra non avere vita autonoma al di fuori dell'evento spettacolare. Gli strappi del tessuto discorsivo e narrativo sono continui. Man Ray impressiona immagini per semplice "contatto" di oggetti comuni (spilli, puntine da disegno, pepe, sale) con la pellicola esposta alla luce bianca. Strappi alla scena illusoria in profondità prospettica della "storia" inscenata dal cinema narrativo. Il "ready-made" della pittura Dada è il modello espressivo. L'intrecciarsi degli elementi assolutamente casuali e incontrollabili con altri di raffinatezza fotografica molto ricercata (vedi i sottili arabeschi dell'ombra d'una tenda sul corpo nudo della modella, nel finale) rappresentano, emblematicamente e contemporaneamente, dosaggio di "caso" e rigore "formale". Il funerale di Entr'Acte (1924) di René Clair segue altre strade: quelle esilaranti e grottesche che giungono fino a Jacques Tati. Ma c'è un sistematico ricorso a tutto il repertorio dell'iconografia del cinema "primitivo": dalle vedute parigine delle "attualità" dei Lumière alle féeries di Méliès.

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Nel programma di negazione dello statuto dell'arte, appartiene anche Anémic cinéma (1926) di Marcel Duchamp, giocatore di scacchi con Man Ray in una sequenza di Entr'acte. Il cinema per Duchamp diventa macchina che congiunge gli opposti: il movimento circolare dell'apparecchio di proiezione che si tramuta nella linearità della successione a scatti dei fotogrammi; la profondità e il rilievo che si appiattiscono in superficie e viceversa. Con i giochi di parole e i doppi sensi dei suoi enunciati, Duchamp sembra voler coinvolgere non solo l'apparato tecnico del cinema, ma tutto un sistema di produzione di senso in un programma iconoclasta totalizzante. Gioco concettuale estremamente calcolato, dove ricorre il gusto per l'omofonia, denunciato nel titolo (anemic è l'anagramma di cinéma). Il rapporto tra la serie degli oggetti (i dischi spiralici) e la serialità del dispositivo cinematografico si tramuta in equivalenza: i dischi sono creati appositamente per il film ed esistono solo in funzione della loro ripresa. Sono dunque degli "oggetti-fotogramma". Non c'è una rappresentazione verticale dell'oggetto, come in Man Ray, flusso senza cornice. Non c'è una rappresentazione caotica e centrifuga, come in Léger (vedi Le Ballet mécanique). La messa in scena è rotatoria, virtualmente infinita, e risucchia lo spettatore in un vortice concreto di segni e parole. Questo è erotismo visivo, movimento circolare ed ipnotico.

Dice Artaud: "Il cinema puro è un errore, così come lo è, in qualsiasi arte, ogni sforzo per raggiungere il principio a detrimento dei suoi strumenti obiettivi di rappresentazione…". Risponde Breton: " Il cinema è il migliore trampolino dal quale il mondo moderno può tuffarsi nelle acque magnetiche e brillantemente nere dell'inconscio". Presupposti teorici surrealisti per un'arte – quella cinematografica – che richiede un apparato produttivo particolarmente complesso. Per un movimento che nella "scrittura automatica" aveva individuato lo strumento privilegiato di accesso all'inconscio, certamente è una contraddizione. Ma l'idea surrealista di cinema supera gli stessi film surrealisti: l'incontro è un chiarimento reciproco della propria identità. La coquille et le clergyman (1927) di Germaine Dulac avvia, probabilmente, il flusso delle associazioni libere, rifiutando le regole del racconto logico e consequenziale per dare libero sfogo ad un universo visionario. L'etoile du mer (1928) di Man Ray segna paradossalmente un consistente punto di avvicinamento alla poetica surrealista. Proprio quando l'integrazione fra il testo poetico e la tessitura visiva passa o non passa attraverso immagini-flou filtrate da un vetro "da cattedrale". Gli effetti stranianti delle riprese sono paralleli a quelli ottenuti dalle invenzioni verbali del poema: "Nous sommes à jamais perdus dans le désert de l'étenèbre".


L'elenco è interminabile: andrebbero citati, tra gli altri, Bunuel, Cocteau, Renoir, Chomette, Delluc, Gange, Vigo, Epstein, Deslaw, Bartosch (tutti presenti al Filmstudio), ma proveremo a ergere, infine, un film chiave nella storia del rapporto tra avanguardia e cinema. L'inhumaine (1923) di Marcel L'Herbier anticipa la normalizzazione dell'avanguardia in una "koiné" modernista, prima ancora della fine decretata dall'avvento del sonoro e della società di massa degli anni trenta. È sicuramente anche esempio ideale per una verifica e una sintesi del complesso sistema di relazioni tra cinema e arti visive negli anni venti.


Dice Dulac: "Il cinema è l'arte del movimento e della luce. Al diavolo ciò che ristagna!".        


 


 


 

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