RAVENNA NIGHTMARE FILM FEST 2004 – Il lato oscuro della Natura

La seconda edizione del Festival dedicato all'Horror si apre con due opere che esplorano le paure umane attraverso il rapporto fra i protagonisti e l'ambiente selvaggio. La sfida è interna alla cinematografia europea e segna un buon punto per il rinascente cinema inglese

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La coesistenza di opposti, si sa, è indispensabile per la sussistenza di un genere "turbativo" quale l'Horror. Pertanto non stupisce constatare come il Ravenna Nightmare Film Fest, giunto alla seconda edizione, abbia scelto di collocarsi in un alveo di tranquillità quale è quello offerto dalla struttura del multiplex CinemaCity, esterna (ma non troppo) al centro abitato e dove fanno capolino piacevoli sprazzi di verde. L'atmosfera è rilassata e poco incline agli eccessi che ci si aspetterebbe da una manifestazione che ha votato se stessa all'esplorazione del Lato Oscuro della realtà. In ossequio alla tradizione del genere, comunque, gli squarci di cinema offerti dalle varie sezioni assecondano i gusti del variegato pubblico, permettendo, fra le altre cose,  la riscoperta del primo Dario Argento (sempre attuale, come dimostra l'entusiasmo percepibile da ogni inquadratura) o degli zombi europei.

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Il concorso lungometraggi gioca invece le prime carte con un dittico "naturalista" composto dal norvegese Willmark – Dark woods (2004) di Pal Oie e dall'inglese Deathwatch (2002), opera prima di Michael J. Bassett.


Protagonista del lungometraggio di Oie è infatti un gruppo di ragazzi (capitanato dal più maturo regista televisivo Gunnar) che decide di immergersi per quattro giorni nell'isolata boscaglia norvegese. Il tutto per temprare il fisico e la mente, in vista di un Reality Show di cui tutti loro saranno gli organizzatori. La messinscena di Oie privilegia tagli di luce espressionistici e una costante desautorazione del colore che mirano a riprodurre l'angoscia interiore dell'esperienza orrorifica. Ben presto, infatti, il gruppo trova il cadavere di una donna abbandonato in un lago e avverte una presenza ostile che dà il via al massacro. Quello che negli anni Settanta era il genere Survivalism (sopravvivenza in luoghi selvaggi, come codificato dal capostipite di John Boorman, Deliverance) va sempre più tramutandosi in un nuovo sottogenere, il Reality Movie, che cerca di applicare il sadismo e lo spaesamento tipici dei Reality Show al cinema di genere. L'operazione però non riesce se non è supportata da un'idea di cinema capace di esplorare percorsi originali e stimolanti variazioni linguistiche, così il film di Oie finisce per apparire come una variazione sul tema di prodotti già visti (stile The Blair Witch Project e My Little Eye).

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Va decisamente meglio con Deathwatch, racconto teso e asciutto, molto classico nella progressione, immerso nel fango di una trincea tedesca, occupata da alcuni soldati inglesi durante la Prima Guerra Mondiale. L'ostilità dell'ambiente si manifesta in un flusso di cattiva coscienza che assume forma ostile al gruppo, destinando i membri dello stesso all'eliminazione reciproca. Il messaggio antibellicista è chiaro e suscita oggi più di una riflessione: i riferimento ad Alien e alla carpenteriana Cosa, che qualcuno ha voluto fare, appaiono comunque eccessivi e anche ingenerosi verso l'onesta opera di Bassett: ciò che più affascina, quindi, è il tentativo di rimanere sempre all'interno del perimetro di genere, con invenzioni narrative semplici e non prive di una certa ingenuità (rampicanti che escono dal terreno per soffocare i malcapitati, la terra che si apre a inghiottire le sue vittime e così via). L'obiettivo dichiarato, infatti, è cercare di far confrontare ancora una volta l'Horror puro con temi attuali, senza snaturarlo in un cinema 'altro', magari forzatamente intellettualistico. Per questo il film si sviluppa con intelligenza e dimostra come l'industria cinematografica inglese possa ricominciare ancora una volta dal genere che più ha caratterizzato la sua storia.

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