RAVENNA NIGHTMARE FILM FEST 2005 – La rielaborazione dei modelli come cifra stilistica

Il Festival di Ravenna si conferma luogo di elezione per gli amanti dell'horror, ma anche manifestazione i cui film cercano e tracciano nuove direzioni nei temi più in voga, e mai del tutto risolti, nel cinema di questo genere. Un viaggio alla (ri)scoperta di ciò che forse non si conosce abbastanza.

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Il denso programma del RNFF 2005, che si articola tra lungometraggi in concorso, eventi speciali, cortometraggi e retrospettive, propone in questa edizione opere che, oltre a offrire interessanti spunti di originalità, si distinguono per la capacità di saper rielaborare con freschezza temi già ampiamente trattati nelle decadi passate e radicati nell'immaginario collettivo dei cinefili horror.

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Così l'australiano Wolf Creek (2005, di Greg McLean), presentato in anteprima nazionale come evento speciale Mikado Film, è una palese derivazione del sottogenere inaugurato ormai oltre trent'anni fa da Non aprite quella porta (del quale si ricorda un recente remake), ma che evidentemente non ha smesso di attrarre l'attenzione di registi e produttori e generare terrore e paura. Girato nelle lande desolate dell'Australia centrale e ispirato a una storia realmente accaduta, il lungometraggio racconta la disavventura di tre viaggiatori (un ragazzo e due ragazze) che si imbattono in un abitante del luogo, all'apparenza cordiale, che si rivelerà un sadico assassino, facendoli sprofondare in un incubo senza fine. Il film ricorda il capolavoro di Tobe Hooper per l'efferatezza messa in mostra nella rappresentazione dell'omicida e per la progressione narrativa che proietta lo spettatore da un'ordinaria storia di viaggio a un horror violento e brutale.

Si ispira a un film di qualche anno fa, il noto (e sopravvalutato) The Blair Witch Project, anche Il mistero di Lovecraft (Italia 2005, di Federico Greco e Roberto Leggio), definito dai registi un "mockumentary", ovvero un documentario nel quale la realtà e la finzione si intrecciano al punto da non essere in grado di distinguerle l'una dall'altra (chi non ricorda il geniale Forgotten Silver di Peter Jackson?). La tesi del film è il tentativo di dimostrare che H.P. Lovecraft avesse tratto ispirazione, per la scrittura di alcuni suoi racconti (in particolare The Shadow Over Innsmouth), da un viaggio compiuto nel Polesine nel 1926, nel quale era entrato in contatto con alcune leggende locali di natura malvagia. Il film, girato con uno stile nervoso che non pregiudica però la comprensibilità della storia narrata, sfrutta abilmente l'ambientazione padana (in questo memore forse di un famoso antecedente, La casa delle finestre che ridono di Pupi Avati) per immergere lo spettatore in una fitta rete di storie misteriose che affondano in un passato oscuro e inconoscibile, fino a un finale che la tensione accumulata fino a quel momento rende particolarmente shockante.


Non sfuggono al citazionismo e al desiderio di confrontarsi con i modelli del passato anche i film in concorso. Lo statunitense Lie Still (2005, di Sean Hogan) ricorda, soprattutto nella parte iniziale, L'inquilino del terzo piano di Polanski, mescolato anche qui con ascendenze hooperiane (Poltergeist); il tema della casa infestata da misteriose presenze si intreccia con incubi provenienti dal mezzo televisivo, che inghiotte le anime e i corpi degli inquilini della casa isolandoli in una dimensione dalla quale non sono in grado di uscire, perpetuando in eterno una condizione di isolamento che non smetterà di perseguitare i futuri abitanti della casa. Anche Jeff Lieberman (protagonista quest'anno di una retrospettiva completa), tornato alla regia dopo anni con Satan Little Helper, sceglie di misurarsi con la festa pagana di Halloween, scenario di una delle serie più celebri della storia del cinema horror. La pellicola risente dell'indubbia influenza dello spirito irriverente di John Waters, collaboratore e amico di Lieberman, che si riflette in particolar modo nella scelta di un serial killer con indosso una maschera satanica quasi caricaturale, che stempera parzialmente la violenza del film donandogli venature più leggere, senza però oscurare il tono anarcoide e politicamente scorretto che traspare dalla visione.


Merita una segnalazione anche The Ten Steps (2004), cortometraggio irlandese di Brendan Muldowney, magistrale nel saper creare in pochi minuti una tensione disturbante, e in grado, per una volta, di fermare l'attenzione ben oltre le immagini, fino alla fine dei titoli di coda, con un countdown tanto incalzante quanto angosciante.

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