RAVENNA NIGHTMARE FILM FEST 2006 – L'Europa tra vecchi e nuovi orrori

Nei film in concorso al festival romagnolo, il Vecchio Continente lancia la sua sfida al genere: quattro le pellicole che rimettono in circolo immaginari preesistenti e giocano con convenzioni abusate, adeguandole alle realtà produttive locali. Spicca l'abilità dei francesi, mentre ancora una volta è l'Italia a non tenere il passo

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Il cinema è una questione di ciclicità, di eterni ritorni su temi già trattati altrove, in un continuo rincorrersi di suggestioni che lottano per ritrovare la loro chiave di interpretazione dell'oggi: un concetto reiterato da quattro pellicole europee presentate all'ultimo Ravenna Nightmare Film Fest, incentrate proprio sulla volontà di affrontare il genere attraverso meccanismi non originali. Un approccio interessante, perché in grado di fornire un adeguato resoconto delle abilità "basiche" dei cineasti europei e dell'approccio culturale e concettuale dal quale muovono le varie cinematografie locali. Pertanto, il merito di queste pellicole (delle più riuscite quantomeno) non sta tanto nel loro valore assoluto, quanto nella loro capacità di offrire un risultato formalmente soddisfacente e in grado di porsi a metà strada tra suggestioni difformi. Da questo versante lo scozzese Wild Country (2005) di Craig Strachan si presenta come una variazione sul tema del lupo mannaro, che si intreccia al racconto di una ragazza madre, vistasi costretta a dare in adozione il figlio: durante una gita nei boschi scozzesi, la protagonista si ritrova braccata da due creature mostruose, insieme ad alcuni amici, e si impegna per salvare un bambino dalla furia delle belve. Nonostante la sua natura di mero monster-movie, il film insiste soprattutto sulla bestialità insita nell'animo umano, sottolineando come il mondo degli adulti sia volto alla sopraffazione reciproca e in quest'ottica la famiglia ideale finisce per diventare proprio quella composta dai licantropi. Un prodotto non del tutto convincente, ma abbastanza bizzarro da meritarsi l'attenzione che riesce comunque a suscitare nel pubblico per tutti i 75 minuti della sua durata.

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Frutto di una coproduzione tra Inghilterra e Lussemburgo e diretto da un regista di origini italiane, Donato Rotunno, è invece In A Dark Place, remake abbastanza preciso del celebre romanzo di Henry James "Il giro di vite". Il classico intreccio, già esplorato dal cinema in numerose occasioni, viene stavolta complicato da una componente sessuale e morbosa che esplicita i sottotesti già presenti nel racconto originario, immaginando legami proibiti tra i vari personaggi, con un risultato parzialmente compromesso, però, da una certa rigidità di sguardo e da una voglia di complicare troppo l'intreccio per stupire lo spettatore: memore del Polanski di Rosemary's Baby, il film di Rotunno insiste comunque sulla fisicità degli elementi che invadono l'inquadratura: la neve, il cibo, il legno degli alberi, testimoniano di un'idea di cinema comunque capace di rielaborare visivamente gli elementi a disposizione. Nel cast spicca la sempre convincente Leelee Sobieski, dotata peraltro della presenza scenica ideale per il suo complesso ruolo di donna carismatica, ma al contempo fragile a causa di un passato di violenze sessuali.


Intrigante a questo proposito il parallelo che si può instaurare con lo splatter nostrano Il bosco fuori, prodotto dai Manetti Bros e diretto dal giovane Gabriele Albanesi: un film che, è bene precisarlo, seppur visibilmente pervaso da un grande entusiasmo nella sua realizzazione, dimostra una volta di più la natura concettualmente vecchia del nostro (residuo) cinema di genere. Anche in questo caso il racconto cerca di stazionare a metà strada tra più filoni, alternando splatter-trash, reminiscenze del survivalism americano (L'ultima casa a sinistra, Non aprite quella porta) e un tono da commedia demenziale evidente nella presenza dei tre "bulli" che restano coinvolti nel rapimento di due ragazzi da parte di una famiglia apparentemente ascrivibile all'alta borghesia, ma in realtà composta da spietati cannibali. Non totalmente pessimo a livello formale, ma incapace di rimettere realmente in circolo quell'immaginario dal quale pesca a piene mani, il film di Albanesi è un lavoro di riporto, dove il tornare a tematiche già viste assume un sapore statico, non riscattato totalmente dal divertimento che naturalmente trasmette, dopo tanti anni, un autentico splatter tricolore.


Il concetto risulta maggiormente chiaro se proviamo a intavolare un confronto con lo splendido Ils, film fenomeno dell'estate francese 2006, diretto a quattro mani da David Moreau e Xavier Palud (già cooptati da Hollywood per il remake di The Eye). Un esercizio di tensione, incentrato su una coppia nella cui villa si muovono delle figure misteriose, che agiscono nell'ombra: al di là dell'ottima costruzione che permette di regalare genuini spaventi, il film si rivela vincente nel suo giocare con le percezioni dello spettatore e nel rovesciare le prospettive, fino all'ultimo fotogramma. Abili nel modulare lo spazio scenico costruendo veri e propri labirinti che si snodano tra l'interno della casa, il bosco circostante e alcuni cunicoli sotterranei, i due registi francesi sono bravi anche a capovolgere alcuni stereotipi lungamente radicati nella cultura europea: il classico cliché dello straniero "invasore" è infatti rovesciato di segno poiché sono i due protagonisti francesi a costituire l'elemento estraneo a una realtà (il film è ambientato in Romania) riletta in chiave misantropica e visivamente espressionista, complice un intelligente uso del digitale a bassa definizione. Esempio perfetto di come rinnovare un tema, di come sfruttare una location e di come rinnovare la capacità perturbante di elementi già consolidati in chiave nuova ed efficace. Da prendere a esempio.

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