Reality Calopresti

Il cinema come rappresentazione del reale

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 “Fare cinema è di per sé un'avventura tanto meravigliosa quanto complicata, il problema principale è rappresentare la realtà, e per fare ciò l'unica strategia possibile è viverla”.

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Così il nostro ospite, Domenico Calopresti, rispondeva al mediatore della discussione, Demetrio Salvi, il quale gli chiedeva qualche indicazione sulle sue strategie di regista. Dunque chi fa cinema ha l'obbligo di vivere la vita, facendosi così interprete della realtà attraverso la realtà stessa. Vivere la vita diviene quindi l'unica sicurezza che si ha per fare cinema. Ci verrebbe da dire, in generale per produrre arte.

L'amore per la realtà e per la vita che dietro di essa si cela caratterizzano fortemente il cinema di Calopresti, un regista che all'inizio della sua carriera si è dedicato molto al documentario. Ed è proprio con il documentario, tipologia filmica strettamente collegata alla rappresentazione del reale, che il regista ha cominciato la sua carriera.

 

Calopresti ha iniziato a fare cinema a Torino agli inizi degli anni ottanta in un contesto culturale molto stimolante. Infatti, nel 1981, prendeva vita nella città della Mole l'esperimento del festival Internazionale Cinema Giovani, quello che poi diverrà l'attuale Torino Film Festival. la ventata di novità e d'indipendenza che questo festival portarono all'interno dell'ambiente culturale torinese furono un'occasione che Calopresti non si lasciò sfuggire per poter fare cinema staccandosi da tutto ciò che poteva rappresentare il cinema che si faceva a Roma, per produrre cose nuove, più reali. Iniziò la carriera come documentarista perchè era il mezzo più facile per esprimere l'idea di realtà che era ed è tuttora alla base del suo cinema. I documentari girati in quel periodo “parlavano delle persone a trecentosessanta gradi e, raccontando il mondo, facevano vivere la realtà”; di nuovo il modo migliore per fare cinema.

 

Dal documentario Calopresti è passato alla fiction, la motivazione che lo spinse a questo cambiamento fu dovuta ad una esigenza di realtà che non riusciva ad ottenere per mezzo del documentario. L'idea per La Seconda Volta (1995), il suo primo film di fiction, gli venne subito dopo aver lavorato in carcere con alcuni ex brigatisti, i quali gli avevano scritto una lettera pregandolo di andare da loro a tenere un corso di cinema. la realtà incredibile che si trovò davanti appena ebbe varcato kle porte del carcere, lo spinse a voler girare subito un documentario che raccontasse della vita in carcere o narrasse le storie di questi uomini, ma costoro non erano interessati a racconatare di loro, della loro vita, non almeno dal punto di vista che interessava al regista. Quindi decise di raccintarla a modo suo. Quindi  decise di raccontarla a modo suo. Più specificatamente, l'idea per il film La seconda Volta gli venne dopo aver parlato con una donna che aveva partecipato alla lotta armata, e che, durante un permesso, aveva incontrato per caso una sua ex vittima. Ciò che interessava a Calopresti era approfondire i sentimenti che il carnefice provava ora, a distanza di anni, nei confronti della sua vittima, la quale dal canto suo voleva solo riacquistare la propria dignità di persona, sconfiggendo così l'impersonalità del “colpirne uno per educarne cento“. Il problema fu che non trovò nell'ex terrorista, così come non l'aveva trovata in quelli con i quali era venuto precedentemente in contatto , la sponda necessaria per poter girare un documentario incentrato su tale problematica, e così decise di fare un film di fiction.

L'incontro si conclude con alcune domande prettamente tecniche sulla stesura di una sceneggiatura e sull'importanza di trovare un produttore che sia disposto a spendere denaro per finanziare il film che si ha in mente di girare.

A conclusione dell'incontro viene proiettato, La Maglietta Rossa, il nuovo documentario del nostro ospite, dal quale si capisce, ancora una volta, come la realtà sia per il regista la fonte di ispirazione principale del suo fare cinema.

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