#RomaFF11 – 7:19, di Jorge Michel Grau

Il film scende sotto le macerie, e immagina come si possa in quella situazione limite reagire, passare il tempo in attesa dei soccorsi guardando in faccia una morte che potrebbe arrivare lentamente

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Il 19 settembre del 1985, alle 7:19 e 42 secondi un terremoto di magnitudo 8.1 colpì Città del Messico causando più di 10.000 vittime. La città fu coperta coperta dalle macerie e di molti edifici e strade non rimase più niente. 7:19 comincia a raccontare quella tragedia a pochi minuti dalla scossa, soffermandosi su un solo edificio. La macchina da presa spazia libera nell’androne del palazzo, segue diverse persone, diverse conversazioni. È l’orario di apertura degli uffici,  ognuno svolge il suo lavoro come d’abitudine. C’è il portiere, l’impiegato, l’inserviente, la donna delle pulizie, il grande capo, c’è gente che entra e che perdiamo di vista. Ancora c’è la luce del sole, ancora c’è ampio respiro. Ma poco dopo, un enorme frastuono, la scena diventa nera e la narrazione si sposta sotto terra. Qui lo schermo si riduce, diventa stretto e angusto come lo spazio che riprende e nel buio si sentono urla e gemiti di persone sperse fra i fili elettrici, i calcinacci e gli oggetti distrutti. 7:19 si svolge tutto lì sotto. Sotto le macerie. Il primo ad aprire gli occhi è Fernando Pellicer, il capo (interpretato da Demiàn Bichir), poi Martin il portiere, Carlos l’inserviente,  Juan il semplice impiegato e  Nadia la donna delle pulizie. Questi  i cinque principali personaggi del film, ma allo spettatore è concesso di vederne solo due, il capo e il portiere, gli altri sono solo voci provenienti dai massi. Per tentare di sopravvivere, per non impazzire, si parlano, si aiutano, litigano e si odiano.

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Jeorge Michel Grau scende sottoterra, sotto le macerie, e immagina come si possa, in quella situazione limite, reagire, passare il tempo in attesa dei soccorsi guardando dritto in faccia una morte che potrebbe arrivare molto lentamente. Ciò che rende il film interessante è che il regista sceglie di non focalizzarsi su un modo di narrare che sia horror o legato troppo a un cinema catastrofico. Sono le voci e i dialoghi di persone qualunque a sottolineare e a farci sentire la disperazione di quella situazione, a darci il senso di claustrofobia. Cinque persone di diversi ceti sociali, si ritrovano insieme sotto le macerie e cercano di resistere. Il film possiede per questo, un certo grado di verità nel raccontare che ci fa stare ancora più male, mostrando semplicemente persone bloccate sotto le macerie.

Purtroppo però, il risultato finale non è abbastanza d’impatto. Alla fine del film si ha la sensazione che la drammaticità dell’esperienza si sia raggiunta solo di sbieco. Si sente la necessità, per rimanere davvero colpiti, di rimanere ancora lì sotto insieme ai protagonisti. Sembra che il film voglia chiudere frettolosamente, come se il regista e sceneggiatore insieme ad Alberto Chimal non sia riuscito a sostenere il peso di un’unica ambientazione, insistendo sui dialoghi, prendendosi il tempo necessario per far crescere la tensione. Servono a poco le riprese in cui la mdp striscia fra le macerie,  che risultano in realtà prive di un vero impatto emotivo. In un film del genere contano i dialoghi, che qui, finché durano, sono a loro modo interessanti, drammatici e a tratti divertenti (ad esempio il vecchio portiere Martin che battibecca col giovane impiegato Juan).
Ma in conclusione, il film ci lascia con  la sensazione che tutto sia durato troppo poco e proprio quando iniziavamo a immedesimarci e a sentirci chiusi e in trappola, le luci del cinema si accendono ed è tutto finito e siamo contenti di essere di nuovo all’aria aperta.

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