Ripartire da zero. Leandro Picarella racconta Segnali di vita

È stata una delle visioni più toccanti degli ultimi mesi. Il film di Leandro Picarella adesso inizia un tour nelle sale italiane. Abbiamo incontrato l’autore per una conversazione

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È stata una delle visioni più toccanti degli ultimi mesi: Segnali di vita è un film su cui abbiamo riflettuto, scritto, che abbiamo cercato di mostrare e, nel nostro piccolo, di difendere. Presentato in anteprima all’ultima Festa del Cinema di Roma, è stato poi in concorso all’ultimo Laceno d’Oro e al Trento Film Festival e in entrambe le occasioni si è aggiudicato il premio del pubblico. A dimostrazione del fatto che si tratta di un film capace di entrare in una relazione di intimità con chi guarda. Che, con una semplicità tutt’altro che facile, sa toccare corde profonde e temi fondamentali: il concreto e lo spirituale, la scienza e il senso del sacro, la solitudine e il bisogno di aprirsi al mondo. Ora, il film di Leandro Picarella comincia un tour nelle sale italiane. Prima a Milano l’8 maggio, poi a Roma dal 9 al 16 maggio, e via via in altre città, in un percorso di autodistribuzione intrapreso dalla casa di produzione Qoomoon, in collaborazione con SudTitles di Palermo

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Abbiamo incontrato Leandro Picarella, per fargli qualche domanda.

Cominciamo dall’inizio. Come è maturato il progetto di Segnali di vita e da quali urgenze sei partito?

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La prima volta che sono andato a Lignan, sette anni fa, ero accompagnato da un amico che voleva farmi conoscere delle persone, in particolare Paolo Calcidese [protagonista del film] e Nora De Marchi [coautrice del soggetto]. Il posto mi aveva incantato: l’osservatorio, il verde, le montagne. Così, per parlare, ci siamo detti che sarebbe stato bello girare qualcosa lì. Ma, al di là delle chiacchiere, era un’idea che non sentivo tanto nelle mie corde. Comunque, dopo un anno, alla fine del 2018, avevamo ottenuto un piccolo finanziamento dalla Valle d’Aosta Film Commission e io pensavo che mi sarebbe piaciuto girare qualcosa di molto osservativo, un documentario duro e puro. Nel frattempo avevo un altro film da girare, Divinazioni. Subito dopo, è arrivata la pandemia. E io ero al lavoro su un altro progetto con Giorgio Vasta, una trasposizione de Il tempo materiale, poi bloccato improvvisamente dalla produzione e la cosa mi aveva mandato un po’ in crisi (anche se ci tengo a sottolineare che il progetto sarà ripreso e portato a termine). Mi rimaneva solo quest’idea in Valle d’Aosta e anche amici e colleghi mi spingevano in questa direzione. Lì ho passato circa un mese e mezzo nell’estate del 2021 e Nora è stata di grande aiuto a inserirmi nel tessuto sociale. Mi fatto conoscere diverse persone, alcune delle quali sono poi diventate personaggi del film. Ma ancora non sapevo bene cosa raccontare. Notavo questo scollamento tra l’osservatorio e la comunità. La comunità che vedeva l’osservatorio come qualcosa non dico di minaccioso, ma come un potere forte che si era appropriato del territorio. Si trattava in parte di timore reverenziale, ma anche un po’ di complesso di inferiorità, devo dire. Nonostante l’osservatorio fosse lì da vent’anni, non c’era interazione. E questo aspetto poteva essere una traccia su cui lavorare. Poi, proprio quell’estate, mentre salivo da Aosta a Saint-Barthélemy, circa 45 minuti di curve in auto fino ai 2000 metri, a un certo punto dalla playlist è spuntata Segnali di vita di Franco Battiato, che era morto da poco. E allora mi son detto “forse questa è la chiave”. Soprattutto nel momento in cui mi trovavo, quella voglia di cambiare, fare qualcosa, di dare anche agli altri la possibilità di sorprenderti. Così quando sono arrivo all’osservatorio, ho cominciato a parlare con Paolo per vedere cosa ne pensasse. Non ero neanche sicuro che potesse essere lui il protagonista, anche perché Paolo, tra l’altro, è un talebano della scienza, è lontano da questioni spirituali ecc… Per lui è tutta questione di prove materiali, verificabili. Quindi ho iniziato a fare delle ricerche. Ma in ogni caso eravamo in montagna e la gente non aveva tanta voglia di parlare, di dar confidenza, soprattutto un ragazzo venuto dalla Sicilia con una videocamera. I primi ad aprirsi sono stati Severino, l’anziano signore del film, e Gabriele, il papà della piccola Agata. Loro sono stati i primi, forse anche per una questione di compagnia. E là è stata la vera partenza. Al di là dell’osservatorio, la montagna, la scienza, la canzone, io avevo bisogno di un corpo a corpo con le persone che inquadravo. Non più solo la macchina fissa, composta, l’inquadratura fatta in un certo modo, ma stare accanto alle persone, raccontare come vivono realmente, le emozioni, le sensazioni, il desiderio di avere qualcuno vicino, soprattutto dopo la pandemia. La relazione…

Questa in realtà è una dimensione poco “osservabile”. È interessante il fatto che la tua prima intenzione fosse un documentario di osservazione. Ma le relazioni si stabiliscono su connessioni emotive, sentimentali, di sensibilità. E sono cose difficilmente “registrabili”, da poter cogliere immediatamente con la pura osservazione. Non c’è il “dato materiale”, quello che interessa Paolo.

È vero. Con Segnali di vita forse per la prima volta ho trovato la chiave più vicina a me. Nel momento in cui non dovevo convincere nessuno con le inquadrature, con il bianco e nero, con i piani sequenza fatti in un certo modo, è stata la vita a suggerirmi il modo. Il mio bisogno di relazioni, ma anche la montagna, il silenzio… quella vita lì, minima, quei gesti minimi. Una delle prime cose che ha fatto la moglie di Gabriele è stata accompagnarmi in un villaggio, in cui abitano solo due persone, due fratelli, di 89 e 92 anni, che purtroppo non sono riuscito a inserire nel film. E sono rimasto colpito dal modo in cui vivono, poche parole, molti silenzi. Non c’è bisogno di parlare, se non si ha qualcosa di importante da dire, qualcosa di umano, di vero da dire. In questi villaggi così distanti tra loro, con così pochi abitanti, quando le persone si incontrano dopo tanto tempo, si dicono poco ma si danno tutto. Questa è una dimensione che io, da isolano, di mare e di fuoco, non conoscevo e mi ha aperto un mondo, mi ha riaperto alla vita. Parliamo di vita. Quando cinema e vita si incontrano, lo sapete, forse si riesce a fare l’Opera. Non per forza l’opera d’arte, ma l’Opera…

Questo mi riporta a una frase che citiamo sempre di Roscoe Mitchell: “c’è bisogno di un motivo veramente importante, per interrompere un silenzio”. E soprattutto riporta a uno dei perni del film: la questione del linguaggio. Paolo a un certo punto dice: “voi vi siete appropriati del nostro linguaggio. Voi parlate di piramide di energia, ma energia significa una cosa ben precisa…”. Ecco, si tratta di linguaggi diversi che cercano un linguaggio terzo per comunicare. E in questo senso, la chiave è anche Agata, la bambina, che chiaramente sta costruendo il suo linguaggio. Perciò è interessante che proprio Agata sia stata una delle prime connessioni che hai avuto con il villaggio… Ma del resto, possiamo pensare anche al modo in cui Battiato costruiva i suoi testi, attingendo da linguaggi che appartengono ad altre dimensioni, ad altri ambiti. E però è proprio in quel modo che la vita può mostrarsi. Il linguaggio è un segnale di vita.

Assolutamente. Adesso Agata parla benissimo, ma quando l’ho incontrata nel 2021, aveva poco meno di un anno. E lei è cresciuta insieme a me quell’anno. Nel momento in cui ero diventato la persona di cui ci si poteva fidare, i genitori, quando andavano nei campi, mi affidavano la bambina. Ed è stato bellissimo vedere come lei si muoveva… Ci sono delle immagini stupende. Avrei fatto un film solo su Agata, per vedere proprio la sua crescita, il suo modo di ambientarsi, anche nell’osservatorio, con il robot che all’inizio le incuteva paura. Ma la questione del linguaggio riguarda anche il patois, questo dialetto difficile, che i valdostani, soprattutto in montagna, utilizzano anche per non farsi capire dagli altri e per mantenere una sorta di distanza. Io adesso un po’ lo capisco, ma perché me lo hanno spiegato, mi hanno dato l’onore di capire certe cose. Perché è il loro linguaggio, è la loro terra. Non è un discorso nazionalista, ma è una maniera per dire “la montagna va protetta, noi ci dobbiamo proteggere in qualche modo, anche dall’osservatorio, da un certo tipo di turismo…”. Il patois è una sorta di linguaggio di confine, che si parla tra l’Italia, la Svizzera e la Francia, e definisce una cultura. Ma possiamo parlare anche del linguaggio scientifico, che ho dovuto imparare, con Paolo, per quel che ho potuto. E così il linguaggio dei corpi, i gesti minimi, la ritualità quotidiana. Di chi, ad esempio, lavora in stalla e lo fa per tutta la vita, perché non c’è prospettiva di cambiamento. C’è chi ama questa vita, come Josef, e chi come Silvia, a 27 anni, vorrebbe anche fare altro. Secondo me in questi luoghi di confine, così isolati, arriva la risacca della nostra contemporaneità. Anche il peggio: i soldi, il desiderio di competere, di essere migliori degli altri. Ma questo tipo di comunità piano piano riesce a scansare gli aspetti negativi. Io mi sono rialfabetizzato con questa esperienza. Ho imparato di nuovo a parlare. Ecco, se parliamo di linguaggi, ho imparato di nuovo a parlare.

Ma per rialfabetizzarsi, bisogna anche riazzerare, liberarsi della lingua già conosciuta e ripartire da zero. E il film, in qualche modo, racconta questo, questa necessità di ripartire da zero. E questo è vero anche per quanto riguarda il linguaggio cinematografico, da un punto di vista formale, stilistico e anche narrativo. Segnali di vita è un film “bello” da vedere, ma sembra sempre tendere a un grado zero del linguaggio. Di purezza quasi naïf… Anche perché è qualcosa che sembra accadere nel corso del film. Da una partenza anche molto costruita, il film a poco a poco si libera dalle sovrastrutture.

È difficile trovare le parole giuste. Probabilmente tutto nasce anche dal film precedente, che è uscito durante la pandemia, in un momento disastroso per tutti. E dal fatto di chiedersi: “per chi li facciamo questi film? a chi ci rivolgiamo?”. Voi sapete che nell’ambiente cinematografico c’è molta competitività, che per natura non mi appartiene. Anche se poi subentra la cultura di provenienza, il posto da cui vieni, il desiderio di emancipazione, di raggiungere degli obiettivi. E quindi all’inizio sperimenti, cerchi di capire quale possa essere il tuo linguaggio, giusto o sbagliato. A un certo punto, io ho avvertito una rottura totale con un’idea di cinema che fosse solo per pochi eletti e iniziati. Non che i film che abbia fatto in precedenza siano per pochi eletti, ma mi sono reso conto che c’è tutta una retorica d’essai. Per citare Olmi, di cui abbiamo già parlato, alla fine conta la vita delle persone. A chi ci rivolgiamo? Soprattutto oggi, con le piattaforme, con le tante possibilità di vedere film, appare tutto standardizzato, tutto uguale, sempre le stesse storie, vedi sempre gli stessi schemi. E anche noi italiani che eravamo maestri, che sapevamo raccontare cose importanti, rischiamo di appiattirci. Anche se è un cinema che regala ancora film meravigliosi e magici, come quelli di Alice Rohrwacher o Jonas Carpignano, che amo tanto. La mia domanda è stata: si può fare un film umano, che emozioni e che non per forza debba convincere il sistema? Volevo, per la prima volta, fare un film libero da ogni ragionamento a priori. Non so neanche se queste cose si possono dire, non voglio sembrare presuntuoso… No. Vedete, io faccio progetti nelle scuole, e a un certo punto mi sono reso conto che non avevo niente di mio da far vedere agli studenti, cose girate da me intendo. Prendi Triokala, il mio primo film, che amo tantissimo, ma che ha inquadrature che durano tre/quattro minuti e i ragazzi erano distanti…. Non è che dobbiamo cambiare linguaggio perché i tempi sono cambiati, è un discorso diverso. Dobbiamo ragionare anche insieme. Può ancora esistere un cinema d’autore che è anche per il pubblico? Ho l’impressione che molto spesso il cinema d’autore oggi viva in una bolla.

E infatti ci sembra che il tuo film poi arrivi al pubblico. Non è un caso che in diversi festival a cui hai partecipato, il Laceno d’Oro e il Trento Film Festival, Segnali di vita abbia vinto il premio del pubblico. Semmai la scommessa è riuscire a farlo vedere. Mostrarlo. Ed è una questione che riguarda le logiche del mercato, la distribuzione. Con Qoomoon adesso avete puntato sull’autodistribuzione, anche con il supporto di SudTitles, e iniziate questo tour nelle sale. Quali sono le aspettative o i timori?

Poche certezze avevo e ho nella vita. Però ero sicuro che se fossi riuscito a raccontare quell’umanità così come volevo raccontarla, questo film sarebbe arrivato alle persone. E di questo già ho avuto conferme. La sorpresa è stata a Roma, all’anteprima alla Festa del Cinema. Io sapevo che questo film avrebbe parlato, ma non immaginavo questa reazione. All’Auditorium la sala era piena e vedere ragazzi, studenti di cinema, appassionati è stato emozionante. Non volevo parlare solo a un pubblico di addetti ai lavori. Adesso la sfida è di farlo vedere sempre di più. La distribuzione è difficile. Quello di cui ci stiamo rendendo conto, a parte il passaparola, è che questi film vanno accompagnati. Anche per superare la diffidenza di alcuni esercenti. Sono diffidenti, perché il mercato ha imposto di andare in una determinata direzione. Ma quando gli esercenti vedono il film, poi ci credono. Credo che con il passaparola, accompagnando il film, con Paolo, Gabriele, chi ha fatto parte della produzione, ci possa essere margine. Avere anche un’altra vita sulle piattaforme, nelle arene all’aperto in estate, nei planetari d’Italia.

Nel film ci sono spesso queste riprese dall’alto, coi droni. Specialmente all’inizio e alla fine, fanno un’impressione particolare, quasi di immersione e riemersione dalla favola. A chi appartiene questo sguardo dall’alto?

[Ride, ndr] Sapete di chi è lo sguardo. Dell’Essere Uno. Del principio universale… Sono contento che questa cosa voi l’abbiate colta sin dall’inizio. Immaginate Lignan e Saint-Barthélemy come una sfera di vetro, con la neve. Era un modo per guardare con altri occhi ciò che ci sta accanto o davanti. Alleniamo il nostro sguardo a vedere altro. Oltre i confini, ma anche vicino. Mai avrei pensato di usare un drone, in vita mia. Io odio i droni. Vi ricordate L’Italia vista dal cielo, i documentari di Folco Quilici? Quelle riprese aeree, con l’ombra dell’elicottero in controluce. Potevano sembrare bruttissime, eppure per me erano vere. I droni, in generale, non mi danno quest’impressione invece. Eppure, provandone diversi, alla fine ho pensato che potesse essere un elemento di linguaggio importante… Per indicare che siamo noi che scopriamo la nostra essenza divina e riusciamo a vedere tutto con distanza. Non con distacco, ma con una certa distanza, che ci permette di abbracciare tutti.

a cura di aldo spiniello e sergio sozzo

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