#RomaFF11 – Incontro con David Mamet
Ama passare da un aneddoto all’altro David Mamet, forse per nascondersi un po’, finché non si arriva alla sua magnifica ossessione, all’essenza della sua poetica. L’incontro di ieri all’auditorium
David Mamet ha incontrato ieri il suo pubblico all’Auditorium, ripercorrendo alcune delle fondamentali tappe della sua intensa attività creativa che, già drammaturgo di successo, l’ha portato nel 1981 all’esordio come sceneggiatore cinematografico con Il postino suona sempre due volte e al debutto alla regia nel 1987 con La casa dei giochi. Una carriera basata su un’essenza poliedrica e schiettamente provocatoria, che si manifesta subito sin dalle prime battute con il pubblico: “Non prendetemi per maleducato se porto il cappello. Ma ho dovuto comprare questo borsalino come omaggio al mio homeboy Al Capone. D’altronde sono di Chicago.”
Se l’utilizzo mordace e dissacrante delle parole è il suo forte, soprattutto se riescono a creare un certo senso di disagio nello spettatore, Mamet ha negli anni tentato anche sperimentazioni di tipo registico, come ne Il colpo (2001), che vede protagonisti Gene Hackman, Danny DeVito, Delroy Lindo (oltre alla moglie Rebecca Pidgeon, presente in molti dei suoi lavori):
Passiamo infine attraverso la carrellata di sequenze dei film da lui sceneggiati: dalla celebre scena della sparatoria con la carrozzina che ruzzola dalle scale de Gli Intoccabili – “Brian ha deciso di aggiungere quella scena… credo che Ejsenstein abbia rubato quella sequenza!” – al discorso finale di Paul Newman ne Il verdetto (1982, regia di Sideny Lumet) – “Avevo scritto la sceneggiatura ma non piaceva a nessuno… del resto di tutte le sceneggiature scritte, ne ho scritte almeno 25 mai diventate film” – fino al fondamentale snodo di Americani (1992, James Foley), drammaturgia che valse il Pulitzer nel 1984, film con un cast stellare (Lemmon, Pacino, Arkin, Spacey, Baldwin, Harris), che ritrae con estrema ferocia il mondo dei venditori immobiliari – “Avevo fatto tanti lavori, avevo lavorato in un’agenzia immobiliare per un anno, per 14 ore al giorno, poi ho insegnato in una scuola nel Vermont e la pièce ha preso forma” -. Ama passare da un breve aneddoto all’altro David Mamet, forse per nascondersi un po’, forse preferisce parlare attraverso i suoi alter ego su celluloide – eh sì, la celluloide! Perché ricorda quanto sia “stato fortunato ad aver partecipato a un periodo in cui per lavoro passavi giornate a incollare pellicole, ed era davvero divertente!” -, finché non si arriva alla sua magnifica ossessione, all’essenza della sua poetica, così politicamente scorretta nello sviscerare il rapporto tra verità e menzogna. “Non ero un bravo ragazzo… pensavo sarei finito da senzatetto… ho fatto tutti i lavori più dequalificanti del mondo. Poi ho visto che potevo scrivere drammi teatrali, che mi piaceva farlo e che potevo guadagnarci; e che potevo conoscere delle ragazze… Non bisogna sfidare il Fato, meglio dire la verità. Ho scoperto che la drammaturgia parla della menzogna che crea uno squilibrio, e poi la verità viene svelata… la mia professione è infastidire la gente. Sono stato premiato fin troppo per questo. Sarebbe di un’enorme ingratitudine cambiare proprio adesso“.