#RomaFF13 – Treno di parole. Incontro con Silvio Soldini e Ivano Marescotti

Più che un treno di parole, l’incontro col regista, l’attore e Martina Biondi sembra una valanga di ricordi, immagini e testimonianze, sulle tracce del poeta dialettale romagnolo Raffaello Baldini

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Il Treno di parole di Silvio Soldini – in anteprima nella sezione riflessi della Festa del Cinema di Roma – non è soltanto il suo ultimo documentario, ma proprio una valanga di lettere, testi, poesia e musica, una composizione quasi coreografica, come se fosse stata concepita in un flusso musicale, sempre seguendo la traccia visiva, melodica e linguistica del poeta romagnolo scomparso Raffaello Baldini, considerato uno dei più importanti poeti italiani della seconda metà del Novecento. Quello che da giornalista storico della rivista Panorama diventò poeta, dopo la scelta più testarda e definitiva: scrivere poesie in dialetto romagnolo, specificamente quello del suo natio Sant’Arcangelo, che lui stesso definiva come un “animale parlante“. “Non scrivo in dialetto romagnolo perché non voglio scrivere in italiano, ma perché le cose che voglio raccontare mi succedono in dialetto”. Lui, che aveva conosciuto il mondo attraverso questo linguaggio, non concepiva raccontare in un altro modo il suo mondo privato e universale.

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L’incontro alla sala meeting dell’Auditorium con Silvio Soldini, l’attore Ivano Marescotti – fedele interprete teatrale dei monologhi di Baldini e uno dei protagonisti del documentario – e la ideatrice e sceneggiatrice Martina Biondi, sembra anche un treno di parole. Il loro entusiasmo si accoppia come una sinfonia, una frase la comincia uno e la finisce l’altro, una serie di parole incatenate, una complicità che diventa organica e costruisce quasi un dialetto proprio. Così la figura di Baldini, scomparso nel 2005, diventa quasi visibile. Il poeta che, appunto, disse in uno dei suoi pezzi: “I morti sono sempre lì, ma fanno finta di non esserci”. 

Ma non sono tutte parole al vento. C’è stato anche lavoro, è tanto. Così racconta Martina Biondi, per poi condividere anche l’aneddoto che da origine al progetto: “Un giorno mio marito sente alla radio la voce di Raffaello Baldini che legge, meravigliosamente, una delle sue poesie. Pensando che fosse un segno dal cielo, è andato a trovarlo e gli propone di registrare le sue opere. Lui ne ha registrata 27 in italiano e 47 in dialetto romagnolo, fino alla sua morte nel 2005. Dieci anni dopo, volendo tirare fuori dal cassetto questo lavoro, ho pensato di coinvolgere Silvio Soldini per fare un documentario su una figura così straordinaria come Baldini, che nonostante abbia ricevuto i maggiori riconoscimenti letterari viene relegato, a causa della scrittura in dialetto”.

Per Silvio Soldini, più che una scelta o una sfida, far conoscere la figura di

Baldini è diventata quasi una lotta: “Mi è piaciuto proprio il fatto che non lo conosceva nessuno, mi sembrava bello e giusto portare la gente a scoprirlo. Io lo conoscevo perché Ivano Marescotti, nel 93, mi invitò a vedere questo monologo a Milano, Zitti Tutti. Ho capito diciamo un 20% ma mi è sembrato geniale”. Il rapporto di Ivano Marescotti con Baldini invece è molto più personale: una scoperta che poi diviene amicizia, per diventare quasi una sorta di equazione. “Nel 1987, ho cominciato a leggere le sue poesie a teatro. Ho visto che il pubblico cresceva ogni volta di più. All’inizio al massimo lo conoscevano 200, 300 persone; oggi, in almeno in Emilia Romagna lo conoscono tutti. Ogni volta che mi presento il pubblico non cala, lo sentono e risentono”. Poi, avviene l’incontro definitivo: “Vado a Milano e trovo la persona più gentile e onesta che avevo mai conosciuto. Gli chiedo di scrivere un monologo per il teatro e così ha scritto Zitti tutti, un capolavoro assoluto e successo di critica. Da lì in poi, tutti i testi che ha fatto io ne ho fatto dei monologhi”.

Il treno di parole si rivolge adesso a Silvio Soldini, che subito approfondisce il rapporto con la figura di Baldini, personaggio che ha ricostruito soltanto attraverso testi, fotografie, archivio e la parola degli altri: “Non avevo mai fatto un film su una persona che non c’è più, quindi l’ho preso come una sfida. Sono stato contento di aver trovato del materiale che aveva la sua figlia, poi sentirlo declamare le sue poesie, lui faceva sentire la metrica, sottolineava il sentimento, poi ho visto anche i suoi filmini familiari, geniali… dopo ho cercato la gente che l’aveva conosciuto, testimonianze di persone come Gigio Alberti, Silvio Castiglioni, Vivian Lamarque, Gianni Fucci, qualcosa di autentico, di intimo“.

Un regista lavora con l’eloquenza dell’immagine, di solito cercando di creare un linguaggio comune, universale. Allora, qual è il valore aggiunto di far dialogare un’immagine proprio con le parole di un dialetto, che è una realtà più concreta, forse chiusa, a volte irraggiungibile? “Il dialetto, per l’Italia, anche se viene da un piccolo paese, corrisponde al rapporto che c’è tra l’italia e il resto del mondo”, dice Ivano. “Alighieri è uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, lo leggono tutti, in Cina, in Giappone. Il nostro dialetto, romagnolo, non è mai stato al livello dei grandei dialetti italiani, se non dopo Tonino Guerra e poi Baldini… oggi sta morendo, questa lingua non la parla più nessuno, ma è qualcosa che va studiato, perché quella lingua pure produce cultura”. 

Forse, Treno di parole è una poesia che parla, come un dialetto, di un mondo che non esiste più?  Silvio non la pensa così. “Parla di un mondo che non esiste più ma allo stesso tempo, parla ancora del nostro mondo, quello che conosciamo tutti, il microcosmo di Sant’Arcangelo ma anche universale, che tutti possiamo capire.”

 

 

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