ROTTERDAM 38 – "The Ferrari Dino Girl", di Jan Nemec


 

Jan Nemec i carri armati li ha filmati, quando arrivavano a Praga. Li ha filmati, ed è fuggito oltreconfine con l’ausilio di un giovane diplomatico italiano e della sua bellissima amante Jana (che lui brama invano) per salvare il girato. Ecco: The Ferrari Dino Girl è il racconto in prima persona di quei giorni, che la sua voce over tesse ricorrendo soprattutto al leggendario, inafferrabile e inimitabile umorismo ceco.

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the ferrari dino girl jan nemecJan Nemec è stato tra i massimi esponenti di quella meravigliosa e immortale meteora che fu la Nova Vlna cecoslovacca. È famoso soprattutto per La festa e i suoi invitati (1966), ma non ha mai smesso di fare film. Come tutti gli uomini, le cinematografie, i popoli e i cineasti segnati a vita da un evento-chiave traumatico, non può non ritornare sulla questione chiave della rappresentabilità di quel trauma. Ed è ovvio che nel suo caso, per lui che aveva già affrontato un altro trauma, l’olocausto, con I diamanti della notte (1964), questo evento non può che essere l’arrivo dei carri armati sovietici a Praga nel 1968. Lui i carri armati li ha filmati, quando arrivavano a Praga. Li ha filmati, ed è fuggito oltreconfine con l’ausilio di un giovane diplomatico italiano e della sua bellissima amante Jana (che lui brama invano) per salvare il girato. Ecco: The Ferrari Dino Girl è il racconto in prima persona di quei giorni, che la sua voce over tesse ricorrendo soprattutto al leggendario, inafferrabile e inimitabile umorismo ceco. Insieme a questo irresistibile resoconto verbale, sullo schermo non scorrono le immagini di una ricostruzione di quanto accadde, per quanto ci siano attori veri che interpretano lui, il diplomatico, Jana… piuttosto, sullo schermo scorrono una serie di schegge visuali, una sequenza di finte “polaroid in movimento” (attenzione: non inquadrature fisse, niente simulazioni di austerità o simili) che alludono ellitticamente a ciò che la voce nel frattempo enuncia: un primo piano di Jana che fuma, il dettaglio del cartello segnaletico della piazza in cui i personaggi stavano in quel momento, il cruscotto della macchina che il diplomatico stava guidando… Un insieme di vedute ristrette e parziali che si concentrano su particolari marginali e lasciano quasi tutto (quasi tutto ciò che “conta” per il racconto) fuoricampo, un mosaico volutamente lacunoso che allude all’evento, lo fa intravedere, però non lo rappresenta ma neppure lo confina in una mistica irrappresentabilità. Perché poi il girato dei carri armati noi lo vediamo. Dopo averci astutamente e retoricamente illuso per qualche decina di minuti che di lì a poco (nel tempo del racconto che si stava svolgendo) quel girato avrebbe fatto una brutta fine, invece poi quel girato arriva alla televisione austriaca sano e salvo e noi lo vediamo. Le immagini in bianco e nero dei carri le vediamo, non sono sacralizzata in una facile irrappresentabilità. È uno stato intermedio: Nemec in carne ed ossa (meglio: il suo interprete), in apertura al film si frappone a immagini proiettate sul muro starnazzando “non va bene, non va bene, non è come voglio io”: le immagini ci resistono tanto quanto sembrano assecondarci. L’ironia di Nemec e lo stile visuale che adotta sono perfetti per rendere questo stato intermedio: né rappresentabile né irrappresentabile, come Jana che il protagonista/regista non riesce mai a conquistare ma che è comunque già sempre lì, nelle immagini che chiudono il film. E insieme a queste immagini, la voce del vero Nemec delirare su progetti di film futuri che dovrebbero raccontare la storia della colossale influenza della Russia putiniana con un contorto plot su Abramovich che ingaggia un portiere ceco (già eroe nazionale) – in questo modo capiamo che siamo stati gabbati e illusi che quella che avevamo sentito fino a quel momento fosse la voce di Nemec e non dell’attore che lo interpretava: il trucchetto della rappresentazione, per quanto fallace, funziona eccome.

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