SALONICCO FILM FESTIVAL – Il festival e la frontiera (4)

Ultime battute del festival di Salonicco. Emerge la forza di un cinema (europeo e balcanico) ossessionato dalla ricerca di un'identità, dal problema dell'altro, dallo spostamento e dai nomadismi, dalle migrazioni vecchie e nuove, elementi in grado di mostrare immagini di un cinema che cerca di ampliare, sempre di più, i suoi confini.

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Ultimo percorso su uno dei festival più interessanti del panorama europeo, non solo per la quantità di film presentati, ma anche (e soprattutto) per l'equilibrio della proposta, la capacità di lavorare su tendenze e tematiche contemporanee, che mostra come un festival possa e debba essere luogo di analisi ed elaborazione di tali tendenze. Se emerge con forza un cinema (europeo e balcanico) ossessionato dalla ricerca di un'identità, dal problema dell'altro, dallo spostamento e dai nomadismi, dalle migrazioni vecchie e nuove, è soprattutto nella possibilità di mostrare un cinema che non lavora per la creazione di una cinematografia nazionale, dai tratti distinti e ben definiti, che sta uno dei motivi d'interesse dei film presentati al festival. Nei film del concorso internazionale, da Backstage di Emmanuelle Bercot a Como pasan las horas (The Hours Go By) di Ines de Olivera César, passando per Falling…in love di Wang ming-tai, sino al già citato Kinetta, vibra un percorso comune, un comune sentire il cinema, come luogo non territorializzato, non legato ad una identità nazionale ben precisa ma, in realtà, fatto di interazioni continue, di forme del cinema che si richiamano e si ripetono da un film all'altro. Luoghi e corpi, vibranti ed inquieti, si alternano negli enigmi del desiderio folle che anima le parole e le azioni della fan innamorata di Backstage e il vagare senza una reale meta di un padre e di un figlio in Como pasan las horas; in Falling…in love, il cinema di Wang ming-tai, cinema raffinato e dal taglio estetizzante, si ripete in una storia d'amore fatta di piccoli spostamenti, di attese e di ritorni, con improvvise accelerazioni, scarti drammatici e mortali. Un cinema in cui il movimento è consegnato non più ad uno scopo razionale, ma ad un moto dell'anima, alla possibilità di rappresentare attraverso il (falso) movimento l'inquietudine di un tempo, la contemporaneità. In questo senso, anche il Novecento (la sua follia, i suoi tempi e i suoi movimenti collettivi ed individuali) può essere rappresentato attraverso una serie di partite di calcio improvvisate, su campi di fango oscuro, carichi di fatica e di speranza: Garpastum di Aleksej German figlio (già visto a Venezia, come anche Il film di Bercot) filma questo sport come raramente si è visto nel cinema, al di là di ogni estetismo e di ogni compiacenza virtuosistica (che comunque appartengono da tempo allo stile di German).

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Ecco dunque avvicinarsi la conclusione di questo percorso in cui il festival di cinema diventa non solo e non tanto una mostra del visibile contemporaneo, quanto una sua lettura e interpretazione. Un ultima menzione va sicuramente alle retrospettive e agli omaggi che hanno accompagnato questa edizione, dalla retrospettiva già citata su Hou hsiao-hsien, che ha permesso di vedere o rivedere le forme cangianti e poetiche di uno dei più grandi registi contemporanei – basti solo pensare alla grandezza dei suoi ultimi film sul tempo e il desiderio come forme di riflessione sulla contemporaneità (da Millenium Mambo a Café Lumière, fino a Three Times) – fino agli omaggi al cinema di Patrice Chereau e Michael Winterbottom, registi di un cinema non sempre straordinario, ma in ogni caso dotati di uno sguardo particolare e significativo. (24 novembre 2005)

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