SPECIALE “AMELIE” -Omelia per Amélie

Amélie è un segno “vuoto”, per dirla con Barthes. Frammenti di un discorso amoroso che Jeunet regala al chi, nel cinema, cerca ancora un po’ di magia. Bisogna però lasciarsi andare, credere ciecamente in ciò che vediamo, farsi pervadere dall'incanto

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Sin dal prologo di questo quarto film di Jean-Pierre Jeunet si istaura un rapporto didattico tra chi mostra e chi guarda. Non è semplicemente una favola con il suo “ammaestramento” morale, o un puro esercizio di stile. Amélie è una bambina cresciuta in una famiglia che non ha saputo capirla, Amélie è un segno “vuoto”, per dirla con Barthes. Lei vive in una famiglia-mondo che non le dà modo di esprimersi ed essere capita poiché gli spettatori di questo mondo non sanno guardare. Da qui l’esigenza di costruirsi un centro attorno al quale il suo universo personale possa orbitare e i suoi abitanti catalizzare su di lei lo sguardo. La mosca di “Jules e Jim” evidenziata con un vero e proprio smascheramento del “segno”, è il palese invito di Jeunet, attraverso il suo alter ego Amélie, a fare attenzione al particolare, a concentrarsi su quell’impero dei segni che va a formare un mondo ulteriore. Un mondo che non c’era, un mondo fantastico grazie al quale la protagonista, sorta di “alieno” coeniano, trova il modo di esprimersi nonché una plausibilità narrativa.
Le luci della sala cinematografica si spengono, ultimi colpi di tosse e Amélie fa la sua entrata. Amélie nel prologo, Amélie da piccola, Amélie che cresce, Amélie Amélie Amélie. Poco inquadrature sono prive della bella Amélie, lei è un punto di riferimento per lo spettatore, senza di lei saremmo persi, è Amélie che ci guida nel suo mondo naif e ci indica come sognare, dove guardare. Bisogna però lasciarsi andare, credere ciecamente in ciò che vediamo, farsi pervadere dall’incanto; sembra questo dirci il regista. Ci indica un luogo “altro” e noi dobbiamo guardare. Una palingenesi del cinema – e dello sguardo – usando un parolone direbbe Moretti. “Se il dito indica il cielo, l’imbecille guarda il dito” sottolinea la voce narrante che non appartiene alla protagonista e a nessun personaggio del film se non al didatta Jeunet. E’ lodevole nel regista il desiderio di mettere in scena non un’analisi ma bensì una enunciazione. Non tenta di spiegare con le parole un mondo fantasmatico (nell’accezione psicanalitica) ma al contrario, espone un dis-cursus per immagini-azioni che, veicolate da Amélie, creano movimento, significanza, perturbazione. Ogni azione della protagonista, dal cavallo della corsa ciclistica alla sostituzione di una maniglia, crea uno scompenso che non può essere trascurato da chi n’è “vittima” e dallo spettatore senza riflettere sul significato del gesto e dell’oggetto in questione. La stessa timidezza di Amélie non è tanto addebitabile ad una limitazione connaturata, ma è piuttosto la metafora del meccanismo narrativo che si palesa inducendola a interagire con l’esterno attraverso l’azione fantasiosa e quasi meccanica, e non con quella dialettica che creerebbe disincanto, appesantimento, distanziamento dalla parabola. La protagonista, come è più volte evidenziato, sta al film come la ragazza con il bicchiere d’acqua di Renoir sta al quadro. E lo sciogliersi di Amélie, in una cascata d’acqua, appunto, sembra il disvelamento finale di una messinscena che, spiegato il quadro, fa luce anche sul suo registro. Ovvero, una messinscena che prende le distanze dal neorealismo poetico (e qui le illazioni di certa stampa francese che definisce il film lepenista sono davvero fuori luogo) per dichiararsi, se ce ne fosse ancora bisogno, in tutto il suo statuto allegorico, al di sopra, al di fuori. Frammenti di un discorso amoroso che Jeunet regala al cinema e a chi, in esso, cerca ancora un po’ d’incanto.

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