SPECIALE DUE GIORNI, UNA NOTTE – Alla luce del sole

marion cotillard e fabrizio rongione in due giorni, una notte
Dio creò l’uomo perché gli piacciono le storie e in due giorni e una notte, ha fatto il possibile. La vita umana è avvolta nelle storie a un punto tale che siamo ormai desensibilizzati al loro strano e ammaliante potere. Motivo per cui, i fratelli Dardenne guidano ad indagare quella patina di consuetudine che ci impedisce di notare la straordinarietà di questa temibile assuefazione.
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La luce vince sulle ombre, ritorna almeno una volta di più, perché sui fratelli Dardenne abbiamo forse sempre cercato e rincorso una linearità di stile che li contraddistinguesse in ogni opera. Il set povero e il trasporto bressoniano, serrare i ranghi e tagliare apparenti vie di fuga per lo sguardo, e poi, ad un certo punto, la ricerca della linearità dei movimenti, frantumando ogni chiusura, ogni sicurezza (per noi, più che per le proprie storie), per filmare sentieri ondulati e intrecciati di gesti e sguardi. In fondo probabilmente ciò che emerge sempre con forza e assoluta coerenza, è la statura morale del cinema, la capacità di catturare, in ogni frammento, la mancanza di solidarietà, l’esperienza reale di liberazione, alla luce del sole, elogiando la vulnerabilità, inneggiando la fragilità, agognando mirabilmente la giusta distanza. La giusta distanza da Sandra (Marion Cotillard) che piange di spalle e pur se confortata, non si gira mai completamente con il volto verso la mdp. Ecco l’istante in cui bisogna tagliare e passare alla prossima scena. Ma i Dardenne davvero tagliano? E quando deciderebbero di farlo? Tagliano l’inquadratura, opponendo ostacoli accidentali, ma non tagliano il flusso emozionale, che scorre sempre tra la vita e la morte, lasciando dietro di sé, non una caotica scia, non uno spazio vuoto, ma le rassicuranti boe (come Mr. Turner) e pietre miliari della narrazione.

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Se ti avvicini troppo alle cose, non distinguerai (e crederai) più nulla di quello che vedi, tutto potrebbe essere tradotto in pornografica fibrillazione dell’isteria. In due giorni e una notte la depressione di Sandra non sprofonda nel baratro della disperazione, ma si mostra lambendo il dispositivo cinema, che a volte resta al di qua di barriere architettoniche quotidiane: l’angolo di una porta semi chiusa, lo spigolo di un mobile ingombrante, la voce fuori campo che induce lentamente e inesorabilmente emozioni sui volti segnati dai tempi incerti. Rosetta, l’enfant, il figlio, Lorna, il ragazzo con la bicicletta, Sandra, vivono nello stesso quartiere, sono tutti partecipi di una “promesse”, quell’istinto di narrare storie che ci rende umani, troppo umani. È in questo quartiere che i fratelli Dardenne sono immersi nella realtà, nell’isola che c’è, nicchia ecologica, habitat della finzione in cui vivere contemporaneamente la stessa vita, molte vite, accumulando esperienze diverse e costruire il proprio mondo con l’incanto dell’invenzione tra spazi apparentemente improponibili al cinema. Dio creò l’uomo perché gli piacciono le storie e in due giorni e una notte, ha fatto il possibile. La vita umana è avvolta nelle storie a un punto tale che siamo ormai desensibilizzati al loro strano e ammaliante potere. Motivo per cui, i fratelli Dardenne, nell’intraprendere il viaggio, restando sempre nella stessa isola, guidano ad indagare quella patina di consuetudine che ci impedisce di notare la straordinarietà di questa temibile assuefazione. Lo straordinario nell’ordinario è la direzione intrapresa.

 

È come sedersi in prima fila al cinema, girarsi e non guardare verso lo schermo, ma gli spettatori che riempiono lo spazio. Nei due giorni (od ore) di luce un’accozzaglia di sconosciuti procedono in sincrono. La luce coreografa le sensazioni, i pensieri, la velocità del battito cardiaco, il respiro, fino al buio, a notte, quando ricevi porte chiuse in faccia, riprendi un cammino solitario, indisciplinato, entropico, nuovamente racchiuso in un abitacolo ad ascoltare rock ad alto volume. I fratelli Dardenne sono tra i pochi registi sulla faccia della terra capaci di colmare l’abisso fra ciò che è desiderabile nella vita e ciò che è desiderabile nella finzione, di unire il giorno alla notte, di far seguire a due giorni la notte. La vita non è difficile (al cinema), l’isola che non c’è lo è. La vita non ci rincorre, non ci segue, semplicemente ci accompagna, ci sostiene. La vita è rifugio narrativo, evasione dalla finzione. Nella prima sequenza, Sandra, ripresa sul divano di profilo, riposa, e uno squillo di telefono insistente, la sveglia. Non è un problema intricato, minaccioso, disperato, conflittuale, ansioso, in una parola, "piacevole", bensì un semplice richiamo mimetico al realismo, contrario all’iperrealismo scorporato di narrativa tradizionale e, al contempo, contrario al cinema di puro appagamento: ad entrambi manca l’ingrediente chiave, custodito dai Dardenne, ovvero il meccanismo della trama sviluppato intorno ai problemi della Storia, che in fondo è fatta di storie e storielle. Alla luce del sole, non si tratta di possedere l’immaginazione, intesa come forma di evoluzione biologica parallela a quella tecnologica, ma la consapevolezza di aver diviso la coscienza critica e che siamo assurdamente assuefatti al miracolo di qualche segno scritto, capace di racchiudere immagini immortali, intrecci di pensiero, mondi nuovi con persone vive che parlano, piangono, ridono.  

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