SPECIALE "Minority Report" – La moralità impazzita dello sguardo

"Minority report" parla di occhi che non vedono, di corpi che arrivano in ritardo, perché il cinema non basta, ci vorrebbero altri occhi, altri dispostivi percettivi con cui leggere il Reale. Per questo è il film più politico degli ultimi anni, perché non gliene frega nulla d'essere politico e di colonizzare il territorio cinematografico

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Quando Cruise entrando nell'appartamento del presunto omicida del figlio, sembra davvero essere sul punto di uccidere l'uomo, lo schermo si squarcia in frammenti scomposti di cuore, e la moralità impazzita dello sguardo diviene l'unico strumento rimasto per assistere alla propria disfatta. E' di questo che si parla. Di occhi che non vedono, di corpi che arrivano in ritardo, di rincorse terminate/finite/filmate in partenza perché il cinema non basta, ci vorrebbero altri occhi, altri dispostivi percettivi con cui leggere il Reale. Non bastano le rifrazioni luminose del dopo cinema, non servono a niente. Nelle prime sequenze, delle immagini sgranate, veloci, fulminee riepilogano ciò che non è ancora stato, tutto quello che il cinema ha già immortalato come repertorio atrofico ed immobile di una durata cristallizzata in plastica del mutamento, in divenire negato del tempo stesso. Ecco allora il cinema che scorre in lucidità fotogrammatica e futuribile del movimento, e soprattutto la moltiplicazione oculare di chi non ha più occhi per rendersi conto di ciò che accade/sta per accadere. Non si tratta di bloccare il flusso narrativo del racconto, ma di negarlo prima dei titoli di testa quale presupposto masticato e ingoiato di una pratica umana, prima ancora che filmica, in cerca di un referente ormai inesistente. I tanti corpi che si affastellano sullo schermo non sono più emanazioni lucenti di corporeità, ma soltanto simulacri sbiaditi di un deja-vù dilagante.

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Nel film di Spielberg non si fa altro che guardare, osservare, giungendo addirittura al punto di non ritorno dell'assimilazione oculare rinata dal trapianto di nuovi bulbi oculari. Quando Cruise si fa installare due nuovi occhi per poter continuare ad interagire con le porzioni di cinema offertegli in pasto, non può fare a meno di provare fastidio, bruciore, solletico. Vorrebbe strapparsi le bende, uccidere il suo vecchio assetto visivo, accecarsi di quel furore distruttivo che solo il vecchio Edipo conosce bene. Vedere è soffrire, piangere, rivivere quella dannata scena primaria che si vorrebbe dimenticare. E' tutto più facile con le schermate opache capaci di restituire i tratti deformati di quello che non è ancora futuro, ma non più passato. E' tutta questione di luce, quella incandescente della memoria, si intende, ma non solo. Quella che proviene da falde acquose del passato, quella intermittente del fuoricampo, quella lancinante della lacrima. Non c'è più bisogno della maschera d'epoca dell'ultimo film di Kubrick per celarsi alla vista dei fantasmi del dopo-mezzanotte. Si è già mascherati. La macchina maschera, la macchina occulta. Che cos'è il girotondo millenaristico del protagonista se non un tentativo di far rivivere per l'ultima volta (forse) l'illusione della messinscena, la speranza che una rappresentazione possa ancora darsi del Reale?


Si diceva che l'occhio non serve più a nulla, ed è vero. Lo sguardo inganna, l'immagine è già corrente alternata di significante comprendente almeno due, tre significati. A Spielberg non interessa più costruire una storia, e in parte ce lo aveva già confidato in A.I. Se ne frega della concatenazione logica, si brucia tutte le carte migliori nel giro dell'ora iniziale, poi non può far altro che sbobinarsi per l'ultima volta in preda ad un nichilismo post-romantico da brivido. Filma il suo scacco definitivo della visione prendendosi gioco di tutti coloro che ancora credono al messaggio, all'invocazione, alla tesi da dimostrare. Il suo protagonista è un morto/vivo che cerca di aggrapparsi a qualche immagine per sopravvivere nella nuova cecità tecnologica, un vuoto di meccanicità esautorato e sfinito da un surplus impazzito di nostalgia. Minority report è il film più intensamente politico degli ultimi dieci anni perché non gliene frega nulla d'essere politico, di colonizzare il territorio cinematografico, di creare un effetto domino rispetto agli altro coetanei filmici. Gli basta mandare all'aria le attese di coloro che aspettavano l'ultimo blockbuster prefestivo e coloro che pensavano che la sofferenza lancinante dello s-finito A.I. fosse un semplice sbaglio di percorso. Gli basta filmare la morte dell'occhio, immortalandosi nell'alveo filosofico del cinema di oggi con la leggerezza indimenticabile di chi gioca con il cinema, sapendo che il futuro non è altro che la memoria del presente.

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