SPECIALE "Moonlight Mile" – il cinema degli angeli

Cos'è questo immenso “Moonlight Mile” se non un remake di “City of angels” in cui si continua a parlare di angeli caduti, di promesse d'amore mantenute lungo i crinali che separano vita e morte e di folgorazioni assordanti?

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Scivolando sull'epidermide bagnata del cuore, perforandolo di luce, lambendolo di nuovo calore. Ma anche precipitare dai cieli alti della incorruttibilità celeste, sfracellarsi al suolo troppo umano, reinvestendo un altro sé nella proporzione irregolare e folle del battito d'amore perduto. E' un volo oltre il dicibile il cinema di Silberling, un sor-volo inquieto e dolcissimo di traiettorie aeree che si fanno e disfanno perché la Terra è sublime/trasparente bisogno d'esserci, è richiamo del senso, è senso a cui non si può rinunciare. Eppure non è facile gettarsi alle spalle l'intoccabilità, scendere dal piedistallo su cui tutti siamo saliti prima o poi e contaminarci con l'oscena bellezza della realtà, mangiandola, respirandola, desiderandola. Quando il cinema non basta più, quando per il nostro essere in questo dannato/meraviglioso mondo ci vuole qualcosa di più di un rapporto equilibrato tra scrittura e visione, tra desiderio e meraviglia del vuoto che ci sottende il corpo, la fantasia, il tremore della caduta. Non vogliamo misura, non esigiamo ordine, non ci interessa la proporzione. Vogliamo la vita, vogliamo sentirci almeno una volta desiderio, amore, sbilanciamento, dunque imperfezione, collassamento, indicibile venir meno del calcolo. E che cos'è d'altronde questo immenso Moonlight Mile se non un remake di City of Angels in cui si continua a parlare di angeli caduti, di promesse d'amore mantenute lungo i crinali che separano vita e morte, di folgorazioni assordanti che ci indicano qual è la strada da percorrere per perderci, per non trovare più il sentiero, per evadere una volta per tutte dal tracciato disegnato per noi da qualcun altro. Cosa c'è di più cinematografico ed eterno del dare vita della morte, del vivificare in uno slancio assurdo e impazzito i tanti noi che non si arrendono di fronte all'evidenza di un corpo che non c'è più? Ma soprattutto qual è la misura da dare al significato di perdita, di morte, di vita? C'è chi tende ad appiattire ogni estremo nella glorificazione coatta del significato, c'è chi come Silberling ci rimette invece in gioco, fregandosene di ogni vaso comunicante tra l'essere in vita e il suo corrispettivo scritto, o peggio ancora parlato. Silberling scrive ai margini della storia che viviamo ogni giorno, riempie il vuoto che ci separa dalla nostra dimensione scritta (dunque significante), e dinamita ogni assetto conoscitivo dell'esistente con un cinema che sembra registrare la soggettiva infinita di un occhio che è un corpo, una voce, un grido, una lacrima. Hoffman osserva il suo futuro/mancato genero, ma osserva in lui anche la figlia che non c'è più, la moglie che sta perdendo, il lavoro in coppia con il ragazzo che non vedrà mai una luce. Ma non ci troviamo nel regno del determinismo filmico, ma nel paradiso della possibilità di ri-essere, anche in un corpo diverso, non importa.

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E' questo allora il segno del farsi ospite della distanza, questo il fraseggio incontrollato e commovente che porta questo sublime nomade del dolore a dire al mancato marito della figlia quello che non ha avuto mai il coraggio di dire a lei, scambiando dunque il corpo, dando amore incondizionato, travolgente, smisurato, proprio perchè cieco. Ossia, incapace di distinguere un corpo dall'altro, rinunciando alla vista, e affidandosi ad un senso nascosto che si dà letteralmente in pasto alla vita. Basta avvicinarsi lentamente ad un vecchio Jukebox, inserire la moneta giusta, e lasciarsi travolgere dal flusso incondizionato di immagini-movimento che ci tempestano la memoria come un fiume in piena. Si dà musica del tramonto e dell'alba (City of angels), ma si dà musica anche di stagioni temporali lontane, di voci perdute, di amici scomparsi. E' la linearità dell'accavallamento di istanti che Silberling non concepisce, visto che brucia la sua opera sul fuoco silenzioso dello scavalcamento, dello iato, della separazione, temporalizzando i brandelli sparsi delle nostre vite e riconfigurando l'orizzontalità del movimento in verticalità spinta dell'accensione romantica. Non c'è rappresentazione del dolore nel suo film, ma una suo trascendimento continuo in normalità del senso destinata prima o poi a scoppiare. Ecco allora l'incursione in tutti i luoghi deputati allo scioglimento della casistica narrativa tradizionale: la casa con l'incursione di parenti ed amici incapaci di essere presenza, il ritorno/detour nel luogo dell'incidente (quel vetro bisogna assolutamente ripararlo, bisogna che tutto torni alla situazione di normalità primaria, quando tutto poteva ancora accadere) e soprattutto il faticoso riconoscimento dell'inanità fatale della colpa, del giudizio, della vendetta. Silberling li priva di questa connotazione abituale, li polarizza quali entità capaci ancora di attendere. Che la Realtà mostri finalmente il suo disegno, e che gli occhi si alzino miracolosamente dal suolo per librarsi leggeri nel cielo. E' il movimento centrale dell'opera, è il segno che tutti aspettavamo. Accade nella scena iniziale, e in quella finale. Un angelo sta per ri-cadere tra noi, un angelo che rinuncia all'immortalità. Un corpo creduto perso, che torna. E' la vita, che ci rifà innamorare ogni volta, che ci sussurra all'orecchio che tutto torna. Perchè "siamo anche ciò che abbiamo perso."

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