SPECIALE SILS MARIA – Screens of Sils Maria
Il cinema di Assayas continua a muoversi tra gli schermi dei nuovi medium-mutanti (Demonlover e oltre…), in un’ebbrezza anamnestica che diventa esperienza del tempo nell’attualità dell’immagine (Apres Mai e oltre…), rivendicando romantiche sopravvivenze (Irma Vep e oltre…) nell’unico schermo dove da sempre si proiettano memorie e passioni, istinti e riflessioni, luci e ombre, vita e morte. Persona.
Si deve salire a Sils Maria. E si deve scegliere di guardare Maloja Snake. Perché bisogna trovare il giusto tempo per avvicinare il “fenomeno “inspiegabile”, il serpente di nuvole che solo a certe condizioni e da un certo angolo di visione può apparire e far risorgere qualcosa. È proprio su quel pendio che sceglie di morire il vecchio “regista” Wilhem, personaggio centrale eppure svanito prima dell’inizio del nostro film, fantasma di un Novecento che preme sull’immagine contemporanea creando abissi di significanza nel nostro sguardo. La notizia della morte del “regista” arriva alla sua “musa” su un treno, ovviamente, dove tutto è iniziato con i fratelli Lumiere, tra macchinico e movimento. Wilhem sceglie di morire nel (fuori)campo di Sils nell’esatto luogo che ricrea le condizioni del cinema: uno schermo bianco (le nuvole), un fascio di luce (l’alba e i primi raggi che squarciano il buio) e uno spettatore potenziale (lì, sul pendio, a rischio caduta…). La Sils Maria di Assayas, pertanto, è il luogo fuori dallo spazio e dal tempo che fa balenare un densissimo magma di memoria e fantasmi (il cinema di Bergman, la filosofia di Nietzsche, la musica di Pachelbel, la pittura romantica di Caspar D. Friedrich o il teatro di Beckett) nell’oltre di un’immagine così classicamente e nitidamente concepita.
Prima di Sils c’è il caos. La proliferazione incontrollata di schermi che intasa lo sguardo di Maria (Juliette Binoche) è una dinamica che ci ri-guarda intimamente, perché ogni dispositivo di visione contemporaneo (iPhone, iPad, computer, monitor, televisori, ecc) crea informazioni virali e vitali per interpretare il suo/nostro presente. Informazioni che si sovrappongono agli eventi, li precedono, li sostituiscono, li con-fondono. Assayas fa vivere alla sua (attrice)musa una crisi di identità che rinegozia ontologicamente la sua immagine di Diva novecentesca posta tra Carne e Grande Schermo, concetti totalmente ridiscussi dal nuovo millennio (dis)incarnato nella diva 2.0 Jo-Ann (Chloë Grace Moretz). Un corpo-medium super potenziato che vive solo nelle immagini autoprodotte e muta personalità a seconda della piattaforma che la contiene: volgare e trasgressiva su YouTube, fascinosa e fetish nel film di fantascienza, angelica e sobria alla vista della vecchia Diva, spietata e gelida in scena. Maria, allora, è costretta a rifugiarsi in montagna per provare la sua parte (svegliandosi da un sogno che “unisce passato e presente”), specchiarsi nella bergmaniana Val (Kristen Stewart), soffrire mutando di nuovo identità (nel controcampo del suo passato) e scoprire le immagini del 1924 filmate da Arnold Fanck: “queste immagini restituiscono la verità diceva sempre Wilhem”, perché “il bianco-e-nero crea una distanza, segna un tempo”.