SPECIALE THE WALK – L’immagine della città
Il Philippe Petit di Zemeckis come lo Spider-Man di Sam Raimi: due sguardi trasversali per riflettere sull’immaginario connaturato alla metropoli, per esaltare il senso di appartenenza a una comunità
I grandi narratori americani si pongono il problema del rapporto fra rappresentazione e realtà, fra la grande iconografia che genera un immaginario e i piccoli gesti quotidiani che caratterizzano la vita. Così accade con Robert Zemeckis: il suo cinema sta infatti nell’esistenza di individui assolutamente normali – idealmente epigoni del cinema di Frank Capra – mentre lo sguardo dell’autore riflette sul senso dei mondi rimessi in scena e elevati a livello paradigmatico. L’avventura nel tempo di Marty McFly è, anche una ricognizione negli errori dell’America dei “padri” per la generazione di trent’anni dopo; la vita di Forrest Gump offre un lucidissimo sguardo su decenni di Storia americana; la camminata sul filo di Philippe Petit è l’emblema del senso di appartenenza a un’immagine di città, che discende naturalmente dall’individuo in grado di compiere un’azione speciale, ma che si fa allo stesso tempo ideale condiviso da tutti ed emblema, perciò, di una nazione.
Questione di identità, quindi, se consideriamo come la restituzione/celebrazione delle Twin Towers avvenga in modo eterodiretto, attraverso un personaggio sostanzialmente apolide, rifiutato da una cultura europea che è capace di generare l’arte e il senso del bello, ma non di apprezzarlo. Al contrario, l’America ne subisce il fascino, sebbene sia immersa in un’etica del lavoro riassunta dai lavori di costruzione delle torri. Quello che serve sempre, in fondo, è uno sguardo trasversale, elevato dal suolo e iscritto sul sottile confine tra la forza idealistica dell’uomo comune e l’impresa da supereroe, veicolata perciò da un funambolo che irride le leggi stesse della fisica e, nel compiere la sua traversata, ossequia un rituale-spettacolo che inizia con il vestirsi, l’indossare il costume: Philippe Petit è, prima che un uomo, un artista del sé, che ragiona nel merito della forza simbolica delle immagini e si presenta, perciò, in quanto icona destinata a esibirsi e a trovare nel gesto bello (ovvero distante dal reale) l’essenza della realtà stessa. La sua impresa unisce e cementa un gruppo di sodali, destinati poi a salutarlo dopo l’impresa. Le Twin Towers perdono quindi la loro concretezza di cemento e acciaio per farsi simbolo dell’Americanità, per il loro pensarsi in quanto icone di una nuova rappresentazione della città (anche alla luce di quello che sarà il loro ben noto destino). L’operazione di Petit è lì per farci capire in anticipo tutto questo e per mostrarci la bellezza di un’architettura pensata per essere sfida e esibizione delle sue possibilità.
Zemeckis, in questo senso, cerca l’effetto di risonanza e allarga ancora una volta il campo dal personale all’universale, riflettendo su quanto racconta: l’uomo-icona Petit si riflette perciò nella stessa New York, città che storicamente coltiva attentamente l’immagine di sé e del proprio valore paradigmatico rispetto a un particolare sentire americano. Una metropoli astratta eppure così autenticamente concreta nella vita quotidiana dei suoi cittadini: una comunità di singoli che però si riconosce in un’identità primaria unica. L’icona che si eleva al di sopra del filo per abbracciare idealmente un pubblico di tante singolarità unite nel gesto dell’assistere allo spettacolo, rinnova l’idea – puramente americana – dell’uomo che fa la differenza mentre costruisce una pagina della Storia del paese, della grande responsabilità data da un grande potere.
Come nello Spider-Man di Sam Raimi, insomma, film che nel mettere in scena le gesta del supereroe a fumetti, formulava la stessa dinamica di lontananza-vicinanza rispetto al reale, in un gioco di identità segrete intrecciate al personale vissuto del suo “uomo qualunque”: un’opera che per prima elaborava il senso della forza iconografica in rapporto alla città nel momento della ferita provocata dalla rimozione delle Twin Towers (che, lo si ricorderà, apparivano ancor prima del supereroe nel bellissimo teaser trailer che precedette di alcuni mesi il disastro dell’11 Settembre). Il percorso di Peter Parker e Philippe Petit, in fondo, non è dissimile: in fuga da un destino da “perdenti”, portano avanti la missione in cui credono e ogni loro gesto è commisurato alla geometria disegnata dai grattacieli della metropoli, che smettono di essere inerti componenti dello Skyline per farsi perimetro di un percorso nell’essenza della comunità.
La riflessione teorica di Zemeckis e l’astrattismo delle forme di Raimi si uniscono così in una mobilità aerea che è anche assenza di vertigini: come ci si sente al sicuro fra le braccia del supereroe mascherato che trae in salvo dalle situazioni di pericolo, così si prova un grande senso di liberazione mentre Petit compie la sua camminata su un filo tanto sottile quanto capace di aprirsi e farsi mondo. Non a caso i film insistono poco sul punto di vista di chi è rimasto in basso, immergendoci invece nell’impresa e nello sguardo trasversale dei protagonisti. Il punto di vista dell’autore e del personaggio diventa fondamentale non solo per cogliere la vera immagine d’insieme della città, ma anche per annullare la distanza con quelle porzioni cancellate dal tempo, in una sorta di iconico Ritorno al futuro dove non è più la macchina del tempo, ma la volontà del gesto a permettere il riappropriarsi definitivo della memoria. E stavolta senza particolari fratture tra la generazione di prima e quella di dopo.