Sterben, di Matthias Glasner

Affronta in maniera ironica, ma non sarcastica, la malattia, la morte e l’amore. E nonostante qualche deriva eccessiva riesce ad emozionare e divertire. BERLINALE74. Concorso

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Quanti tipi di famiglia conosciamo? Quella rappresentata da Matthias Glasner, la famiglia Lunies, è di tipo disfunzionale. Divisa, distratta, distante. Quelle pareti che li tengono separati, ciascuno con la propria vita ed i propri problemi, diventano la struttura portante della storia ed ogni capitolo, sono sei in totale, un passo per avvicinarli in un insieme che sembra impossibile. Il principio tocca ai genitori, Lissy e Gerd, vecchi e privi di difesa, affetti da diverse malattie, Parkinson, cancro, diabete, che emanano un sentore di morte, sospesi in un limbo di demenza senile e tremori e la gola stretta dalla paura. Hanno due figli, Tom che vive a Berlino e lavora come direttore d’orchestra, ed Ellen, di casa ad Amburgo, città natale del regista, impiegata presso uno studio dentistico come assistente. La chiamata al capezzale è una pausa momentanea, un imprevisto, l’occasione di un chiarimento dopo un visita fugace dai tratti allucinatori, il dolore che scioglie la lingua dal pianto e dagli scrupoli, e la perdita che concede il privilegio di essere sinceri.

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Il merito di Glasner, molto coraggioso ad affrontare tematiche complesse ed imbarazzanti con una sottile linea ironica, è di non finire mai dentro sadismo o commiserazione, un rischio elevato soprattutto nella prima parte. Poi il racconto si apre su Tom, la quotidianità frenetica, il rapporto problematico con la madre, la relazione mai finita con Liv e quella con Bernard, l’amico compositore depresso e propenso al suicidio. E cambia ancora di tono con Ellen, una persona dipendente dall’alcool, i disturbi associati al suo consumo e la sua mancanza, la sessualità malsana, la linea melodica che abbandona il repertorio classico per finire nelle ballate fumose di un pub o nella devastazione di un concerto punk. Il ritratto familiare abbozzato dal film tocca nella solitudine i punti cardinali di un’esistenza, una lontananza che a Natale significa la compagnia di una sigaretta, una recita triste o guardare insieme ad un bicchiere di vino Fanny e Alexander. Dai primi vagiti all’ultimo respiro, nonostante il suo estremo realismo, finisce per descrivere una storia universale, neanche si interroga sui massimi sistemi, accetta l’ineluttabile destino con mirabile riserbo, e dalla cenere rinasce con immutato stupore per l’avvenire.

In un distacco caratteriale di stampo nordico Sterben lascia germogliare i semi emotivi, gli amori finti e le promesse tradite, ed i suoi personaggi nella loro fragilità soffocata riescono a conquistare per il loro orgoglio, a condividere le loro tragedie in uno sguardo silenzioso. Il maggior difetto sta probabilmente nella mancanza di sintesi, che comporta in qualche scena un’insistenza eccessiva su particolari e dettagli ridondanti.

Autore con una robusta filmografia alle spalle, ben oltre venti lungometraggi, Glasner rinuncia agli artifici narrativi per accordare spazio ad archi progressivi legati all’esistenza, l’inizio e la fine, senza nascondere la voragine aperta da un lutto, senza illudersi di un idillio perpetuo, di un anello o di una fede incrollabile. Nello spasimo si serve del disincanto. Lascia la verità sulla bocca di una bambina, che ti esorta a credere al tuo cuore, perché il cuore non sa mentire.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
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Il voto dei lettori
4.5 (2 voti)

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