Surviving Garbo

Cento anni fa nasceva la divina Greta: enigma, imperscrutabilità e ambivalenza riuniti come forse in nessun'altra diva. Sono le chiavi di quello spazio segreto che fa di un'attrice un mito: quando e perché si adora ciò che non si riesce ad afferrare.

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Stoccolma, un sobborgo, povertà, l'alba. Il 18 settembre 1905 nasce Greta Gustafsson. Oggi, settembre 2005. Da Hollywood a Roma, da Napoli a Berlino, è tutto un accavallarsi di proiezioni, francobolli, retrospettive, libri, documentari, mostre che ricordano la 'sfinge svedese'. Eppure parole e immagini sembrano non bastare, poveri relitti e solite celebrazioni che restituiscono quello che già si sa o si immagina. Ma è l'incomprensibile che rende davvero immortali.
Se Greta Garbo (il nome d'arte suggeritole dal regista Mauritz Stiller, che nel 1924 ne fa la protagonista di La leggenda di Gösta Berling: ultimi bagliori del cinema muto svedese e mirabile saga che lega coscienza e destino in pieno stile 'tragico') potesse vedere questo turbine di pubblicazioni e festeggiamenti, difficile dire come la prenderebbe. Cosa direbbe della pubblicazione delle lettere scritte a Mimi Pollack, che indugia in speculazioni sulla sua omosessualità? Come spesso accade, più ci si ostina – per carattere, per riluttanza, per insofferenza, per inadattabilità – a chiudere fuori dalla propria porta certi meccanismi infernali, e più il sistema stesso, con la scusa o la buona volontà di celebrare, insiste proprio sugli spazi che si volevano chiusi a chiave. Così ora possiamo chiederci se Greta Garbo fosse lesbica, o perché si ritirò dal grande schermo, splendida e in vetta nonostante Non tradirmi con me – film fiasco ('Mi hanno scavato la fossa' il suo commento) – a soli 36 anni. O perché scelse quella che viene oggi definita 'segregazione' come stile di vita, fino alla morte nel 1990. Ce n'è di materiale per delazioni e rivelazioni, come per ogni star che si sia ritrovata, volente o nolente, con vita o morte legate a qualche zona d'ombra sfuggita alle luci abbaglianti della spettacolarizzazione. Ma è davvero solo questo che ci resta?
'Sta avanti' si dice oggi di qualcuno che nasce in un contesto paradossalmente arretrato rispetto al proprio mondo interiore: Greta Garbo, promessa del cinema europeo, prende posizioni e decisioni nel bel mezzo della società patriarcale. Ci mette poco a ribaltare il rapporto con il suo 'pigmalione': nel 1925 a Berlino, dopo la firma del contratto hollywoodiano con Louis B. Mayer per la MGM, accetta la proposta di Georg Wilhelm Pabst per La via senza gioia (sarà un angelo avviato alla prostituzione nella fame del dopoguerra berlinese: la reale disperazione desolante che oggi possiamo ritrovare solo nella brutalità del cinema-verità alla Christiane F), solo a patto che la produzione assicuri il mantenimento di Stiller. A chi vuole sposarla – magnati dell'editoria o star del cinema cambia poco – risponde: 'Moglie è una brutta parola'. Nel 1933 rende ridicoli gli scandali di oggi con il bacio alla sua dama di compagnia in La regina Cristina di Rouben Mamoulian. Già, la regina di Svezia, l'ultima inquadratura che buca lo schermo e il cuore con l'androginia sfuggente e la femminilità difficile (lontana dagli stereotipi), il distacco e insieme l'intensità che bastano da soli, forse, a spiegare il successo delle declinazioni post-moderne dell'archetipo 'Garbo': intoccabile, irraggiungibile. 

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La Garbo ride. E' questo lo slogan che nel 1939 lancia Ninotchka di Ernst Lubitsch: la prima volta della 'sacerdotessa del cinema' (così la chiamava Fellini) in un ruolo brillante…l'attrice sceglie con coraggio ed intelligenza la via rischiosa dell'auto-demistificazione: formidabile prova di talento da commedia che il pubblico non gradisce.  Perchè l'immagine che la fabbrica dei sogni le ha costruito intorno si è ormai fatta calco. Da Il torrente, a La tentatrice, a La carne e il diavolo (1926), da La modella a La cortigiana (1931) a Il velo dipinto (1934), non è altro che invariabilmente vamp: è qui che lo scarto cinema/vita inizia a stridere, non fa più solo sognare, ma anche soffrire. Sarà il modo di occupare quel limbo tra immagine e realtà a renderla mito; ma ora non basta più neanche che Orson Welles dia vita a un'idea (The loves of D'Annunzio and Duse) solo per lei.
La Garbo parla. Tra i frammenti dell'immaginario legato al tramonto del muto, ecco la frase che accompagna l'uscita di Anna Christie di Clarence Brown (1930), primo film parlato della diva, di nuovo nei panni della prostituta. Qui Greta Garbo diventa 'la divina': fa il suo gioco la particolarità della voce, ancora oggi per molti uno dei primi tratti ad evocare la sua immagine. Resta attaccata addosso almeno quanto una recitazione che può affidarsi anche solo e del tutto al volto, come nel finale di Anna Karenina (1935) di Clarence Brown: se allora il Codice Hays la costringe a censurare la propria carica erotica, ancora una volta oggi la forza delle interpretazioni della Garbo resta un archetipo attraverso cui leggiamo gli altri volti, maschera dalla cui visione difficilmente si fa ritorno.
Divina: non per caso. Come quando si cerca di dare un nome a qualcosa di innominabile: ogni volta che provi ad afferrarlo, si dissolve. Provi ad immortalarlo, ed è già lontano. Per questo il nome Garbo evoca. E basta, senza che possiamo dire bene che cosa. Gli schemi seriali hollywoodiani non l'hanno ingabbiata. Cronache mondane e pruderie travestite da scoop non l'hanno catturata. Il suo volto respira ineffabilità e sogno. Per questo Greta Garbo è cinema puro.

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