#TFF34 – Avant les rues, di Chloé Leriche

Qualcosa sembra mancare. Nonostante la bellezza delle immagini, il film rimane un pò anonimo. Non riesce ad avvicinarsi alla forza dei rituali, né a farcene sentire l’ancestralità. In concorso

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Avant les rues (Before the street) della regista canadese Chloé Leriche si apre con un ragazzo e una ragazza, fratello e sorella, in piedi sotto a una sorta di gazebo. Lui batte il ritmo con le mani e con i piedi, lei intona un canto dei nativi americani, canto lungo, ripetitivo, che ipnotizza come un mantra. Il ragazzo è Shawnuk e vive con la sua famiglia, madre, sorella, nipote e patrigno, nella riserva di Manawan in Québec. Appartengono a una tribù di nativi americani originari di lì, gli Atikamekw. 

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Il film è il primo lungometraggio della regista. Girato solo con attori non professionisti, veri Atikamekw, offre molti spunti interessanti su cui riflettere. Innanzitutto il personaggio di Shawnuk, così come la sorella Kwena, pur essendo legati  alle loro origini, fanno parte delle nuove generazioni, sempre più vicine al mondo della “strada”. Questo è ovvio, come loro anche la madre e il patrigno poliziotto sono integrati. Ma per i due giovani è diverso, Kwena ha il piercing al labbro e Shawnuk veste come un gangster americano e si fa fotografare con la pistola in mano. Con quell’arma, introdotta a forza fra la sua gente secoli prima, commette un crimine, uccide un uomo e va nella foresta, dove si redime avvicinandosi e purificandosi attraverso le pratiche tradizionali del suo popolo. Decide di tornare a prima della strada.

avant_les_rues__2016_3371C’è una sorta di interessante indagine antropologica alla base, ci si abbandona alle nenie e ai rituali delle popolazioni native americane. I volti, gli occhi neri e profondi di Kwena, le labbra grandi di Shawnuk riempono lo schermo; la forza di questi attori sta proprio nell’essere veri, nell’essere attori non professionisti. Alcune inquadrature incantano e regalano immagini che rimangono dentro. Tutto ciò è rafforzato da certi toni della fotografia, che passano dal grigio delle case al verde folto della foresta, in un contrasto palese fra  la cosiddetta civilizzazione e le radici, fra il cemento e la terra. Si sente la volontà di mostrare la frattura.

Ma nonostante questo il film sembra bloccato, gira intorno alle sue immagini ma solo quando si traduce nei suoni e nei canti riesce ad arrivare. A fine visione qualcosa disturba, qualcosa sembra mancare. Forse è dato dal fatto che nonostante la bellezza delle immagini e la curiosità destata dall’argomento, il film rimane anonimo: non riesce davvero ad avvicinarsi alla forza dei rituali, non tanto a farcene vivere la magia quanto a farcene odorare l’antichità, l’ancestralità.  È un film che regala belle immagini che rimangono sospese in alto, senza arrivare quasi mai alle radici. 

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