#TFF37 – Dreamland, di Bruce McDonald

Dreamland indaga cosa si prova nella mente di un trombettista eroinomane, in un noir surreale ed onirico, contaminato da altri generi cinematografici. Con Juliette Lewis

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In questo film andiamo ad indagare cosa si prova nella mente di un trombettista eroinomane“. Alle poche parole che usa Bruce McDonald per presentare il progetto al pubblico di Torino, aggiunge soltanto che il suo noir è ambientato in una terra onirica, e dalla prima inquadratura sfocata e luminescente il concetto appare subito confermato. Un pubblico quello della Mole che già in passato ha avuto modo di apprezzare le opere del regista, al suo quarto passaggio festivaliero dopo The Tracey Fragment, Pontypool e This Movie is Broken.

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Johnny è un killer disilluso, magro e baffuto, con il volto scavato dal tempo, stretto nell’impermeabile ed un cappello di ordinanza, che vende servizi ad un boss ambizioso e senza scrupoli, Hercules, con il quale entra in dissidio per un giro di prostituzione minorile, per lui, uomo dai singolari e ferrei principi, inaccettabile. Prima della rottura, entra in contatto con il Pistolero, un trombettista geniale consumato dalla droga, anch’esso scarno e pieno di rughe, colpevole di avere mancato di rispetto ad Hercules e che dunque merita una lezione esemplare, la perdita del mignolo. Nella storia poi convergono altre figure coinvolte a vario titolo con i protagonisti: la Contessa sadica, interpretata da Juliette Lewis, che indossa bizzarri copricapi fiorati ed abiti da sacerdotessa, ed il fratello, chiamato il Vampiro per la macabra abitudine di bere sangue umano. Proprio a lui è destinata una delle bambine rapite, per celebrare delle nozze dentro il Castello, la residenza principesca che diventa lo scenario per la definitiva resa dei conti. Un party esclusivo pieno di figure di spicco e di alta estrazione sociale, appartenenti ad una élite che comprende politici, ecclesiastici, militari, per un’orgia di potere condannata senza possibilità di appello.

Tra fumo di sigarette, luci al neon, club di dubbia fama, nebbia, si crea un intreccio dal sapore ricchissimo, contaminato di elementi presi dai generi più disparati, in primis il noir, of course, ma anche l’horror o addirittura un piccolo omaggio al cinema action hongkonghese nel convulso epilogo. Il tutto accompagnato dalle note soffuse di un piano o dalla voce rauca della tromba, che lasciano posto all’elettronica per sottolineare il cambio continuo di atmosfera. Nonostante la solidità della trama e la precisione dei passaggi narrativi il film si accende soprattutto grazie alla forza suggestiva delle immagini, volutamente stereotipate, alla fotografia piena di ombre, alla suggestione e al grande potenziale evocativo dei personaggi vestiti da costumi di grande effetto scenico. Connotati da pochi e chiari principi conduttori, vengono classificati, con una netta scelta di campo, in buoni e cattivi, per fare ricorso al loro implicito bagaglio di ambiguità quando si passa ad una vena più surreale.

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