The Duke, di Roger Mitchell
Sorretto dalla prova di Jim Broadbent e poi Helen Mirren, una commedia sociale sullo stile dei film Ealing che si perde però la portata rivoluzionaria del fatto realmente accaduto. Fuori Concorso.
Il modello sono le Ealing Comedies mescolate con Frank Capra dove l’uomo comune della strada arriva a parlare con i potenti. E con The Duke il cinema di Roger Michell va sul sicuro, anche troppo. Si affida totalmente a Jim Broadbent e poi ad Helen Mirren e forse la parte più riuscita del film sono le loro schermaglie verbali degne di una commedia sofisticata. “Perché ti preoccupi per lui?” chiede il marito alla moglie. e lei risponde: “Così non mi preoccupo per te”.
La storia di The Duke è realmente accaduta. Nel 1961 Kempton Bunton, un tassista di circa 60 anni, ha rubato il ritratto del Duca di Wellington di Francisco Goya dalla National Gallery di Londra. Poi ha mandato una richiesta di riscatto dicendo che avrebbe restituito il dipinto a condizione che il governo si impegnasse a tutelare la condizione degli anziani con maggiori investimenti. Una delle sue battaglie più grandi è stata quella per ottenere il canone gratuito per la tv, che è stato introdotto quasi 40 anni dopo, nel 2000, per gli over 75.
La mano di Mitchell si vede quando The Duke mantiene il respiro della commedia leggera. Oltre ai duetti tra Kempton e la moglie, è evidente nei momenti in cui cerca di truffare gli agenti della posta sostenendo che lui non poteva pagare il canone perché la sua tv non prendeva la BBC dopo aver tolto una bobina e in tutta la parte processuale, semplice e coinvolgente. Il cineasta sembra qui ritrovare quella leggerezza di Notting Hill, dove prima di tutto contano la storia e i personaggi. Purtroppo non si mantiene per tutto il film. Risulta infatti più sfocata la parte drammatica relativa al ricordo della figlia morta e al racconto “La ragazza in bicicletta”: Michell s’impantana in un cinema letterario dove, attraverso la figura di Broadbent, tira in ballo Shakespeare e Čechov. The Duke appare come la dimostrazione prima di tutto di un saggio di scrittura intoccabile ma anche impermeabile. E si affida ai suoi protagonisti e a una storia bellissima per mandare avanti il film. Un po’ poco. Suamo sul modello della commedia sociale inglese fine anni ’90. Un cinema quindi impeccabile ma anche già superato. Il rischio più grosso è quello di lasciare in secondo piano il contrasto sociale. E soprattutto si perde la forza del gesto rivoluzionario di quello che è stato l’unico furto alla National Gallery trattandolo come poco più di un aneddoto.
La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
Il voto al film è a cura di Simone Emiliani