The Matchmaker, di Benedetta Argentieri
La regista prosegue l’indagine sul ruolo delle donne in guerra, ma stavolta non riesce ad essere davvero incisiva. Fuori concorso
Tooba Gondal aveva solo 20 anni quando è partita da Londra, abbandonando gli studi universitari e la famiglia, alla volta della Siria, per sposarsi con un miliziano dell’ISIS e unirsi a Daesh, lo Stato Islamico. In breve tempo, è diventata una delle più conosciute e agguerrite jihadiste del mondo, accusata di aver reclutato una dozzina di donne occidentali per portarle in Siria e darle in sposa ai combattenti (e per questo ribattezzata “The Matchmaker”), attraverso una massiccia propaganda social, in particolare su Twitter. Sotto lo pseudonimo di Umm Muthanna, tramite tweet e messaggi privati, la giovane ha condiviso il proprio estremismo, esultando per stragi e morti operate dagli estremisti. Ma non appena l’ISIS ha cominciato a perdere terreno, sconfitto dall’esercito di liberazione curdo, Gondal è scomparsa da internet. La regista Benedetta Argentieri l’ha ritrovata in un campo di prigionia in Siria nel 2019 e ha dato il via ad un progetto che vede Gondal protagonista di una lunga intervista esclusiva.
Durante gli incontri, Argentieri tenta di scardinare l’immagine offerta dalla jihadista di donna sottomessa, plagiata e quindi non responsabile delle proprie azioni, mostrandosi accogliente e curiosa, ferma ma mai inquisitoria, in modo tale che eventuali contraddizioni e ambiguità emergano spontaneamente dal flusso di parole di Gondal e mai invece un cortocircuito dato dal botta e risposta. Alla lunga intervista frontale, Argentieri alterna qualche ripresa nel campo di prigionia siriano dove ha incontrato per la prima volta Tooba, detenuta insieme ai figli e dove la regista ha avuto modo di raccogliere anche le testimonianze di altre prigioniere che hanno confermato la partecipazione attiva delle donne all’interno dello Stato Islamico, come reclutatrici e a capo della tratta di schiave yazide, contraddicendo le dichiarazioni di Gondal sulla totale estraneità delle donne di Daesh al processo decisionale e militante. La regista, che in precedenza aveva già diretto due documentari (Our War e I Am the Revolution) sembra essere sempre troppo indulgente, mai veramente decisa e capace di mettere in discussione le dichiarazioni dell’intervistata e in difficoltà di fronte alla freddezza di Tooba Gondal. E laddove l’intervistata si mostra evasiva, il documentario arranca nel percorrere altre strade per fornire risposta alle domande rimaste in sospeso, proprio a causa dell’esiguo numero di testimonianze. Anche la via dell’analisi sociologica rappresentata dallo studioso Simon Cottee, che segue l’attività di Gondal dal 2015, si disperde, disseminata a morsi tra un primo piano e l’altro della jihadista, risultando in tal modo troppo poco incisiva.