"The Red Shoes", di Kim Yong-gyun

Niente di nuovo sul fronte orientale: l'immagine, in questo film ancor più che in certi sottoprodotti nipponici degli ultimi anni, non è che un pretesto per infilare un effettaccio sonoro. Cinema come protesi accidentale del Dolby Digital.

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The Red Shoes, opera seconda del coreano Kim Yong-gyun, è due film: uno per ogni scarpa. Il primo, rielaborazione una fiaba di Hans Christian Andersen, si fonda sul meccanismo classico del ritrovamento dell'oggetto misterioso che, gravato da una maledizione, porterà morte e sventura tra i malcapitati possessori fino a quando non sarà restituito al legittimo proprietario, ovviamente defunto. L'avvenente Sun-jae, oculista ma ferita a un occhio (toh, i fratelli Pang) si trasferisce con la figlia Tae-soo in uno squallido monolocale quando scopre i tradimenti del marito. Un paio di scarpe trovato per caso in metropolitana cambia la sua vita, le permette di ritrovare la fiducia in sé e conquistare l'arredatore d'interni In-chul. Ma Tae-soo, 6 anni, che come tutti le bambine asiatiche indossa preferibilmente camicie da notte (toh, The Ring), è decisa a contenderle le scarpe della felicità dando vita a una curiosa competizione generazional-feticista. Chi ne se impossessa senza permesso, cedendo alla cupidigia, ci rimette prima i piedi e poi la vita: se ne accorgerà Mi-hee, odiosa e corpulenta amica di Sun-jae. Tutto trae origine da una storia di gelosia e avidità avvenuta nel 1944 e intrecciata confusamente con le sorti di una modella pubblicitaria, una ballerina e una mostruosa senzatetto. Mah. L'ambientazione contemporanea, la metropoli come selva oscura, la frustrazione della protagonista possono anche funzionare. Ma quando iniziano le allucinazioni, posticce che le labbra siliconate della protagonista, il film diventa un centone di scene già viste, un campionario di piogge di sangue, incubi, sguardi torvi tra i capelli arruffati, illuminato da neon difettosi e fotografato con inutile dispiego di virtuosismi tecnici. Niente di nuovo sul fronte orientale: l'immagine, in questo film ancor più che in certi sottoprodotti nipponici degli ultimi anni, non è che un pretesto per infilare un effettaccio sonoro. Cinema come protesi accidentale del Dolby Digital. Un equivoco coerentemente metaforizzato dal colore delle scarpe in questione, che sono rosa e non, come soltanto un ingenuo potrebbe supporre, rosse. A venti minuti dalla fine, poi, gli sceneggiatori realizzano di essere a corto di idee e decidono di cambiare film: Sun-jae diventa una psicopatica assassina, la maledizione una frescaccia frutto della sua immaginazione. Che novità. Chi pensava che Alta tensione e Hipnos toccassero l'apice cialtronesco nell'uso di questo espediente narrativo, per il quale si auspica con la massima urgenza un referendum abrogativo, avrà occasione di ricredersi: The Red Shoes compie l'impresa impossibile di librarsi oltre quella vetta, turbando il sonno eterno del povero Andersen senza nemmeno rubargli le scarpe.  

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Titolo originale: Bun Hong Shin

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Regia: Kim Yong-gyun


Interpreti: Kim Hye-soo, Park Yeon-ah, Kim Sung-su, Go Su-hee, Lee Uhl.


Distribuzione: Medusa


Durata: 103'


Origine: Corea del Sud,  2005

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