Tony Scott. Il più veloce del Tempo
Se n’è andato con la stessa velocità dei suoi film Tony Scott. Il regista inglese ha creduto fino al dogmatismo che l’unico cinema possibile fosse fatto di movimento e velocità. Lo ha fatto spremendo lo stile come pochi altri e raccontando l’uomo con lo sguardo laico di chi è soprattutto innamorato nell’assemblare un’immagine dopo l’altra. E dietro le immagini sbilenche, i travelling aerei, le zoomate e un montaggio rapidissimo, si intravedono i contorni sfumati di un racconto ossessivo sul rapporto uomo-macchina
Filmografia media ma spesso diseguale quella di Scott, capace di passare da classici indiscutibili – appunto Top Gun, che sta al cinema americano degli anni ’80 come L’Esorcista sta in quello dei ’70 – ad opere minori quali Revenge e Domino. Trattandosi di uno di quei registi che più di ogni altro ha creduto nella riconoscibilità della firma, nella regia come “marchio di fabbrica”, sempre al servizio delle priorità industriali di Hollywood, diventa paradossale come alcuni dei suoi film migliori – o giudicati tali da critica e pubblico – finiscano con l’essere operazioni in cui la paternità tonyscottiana c’entra quasi per caso. Una vita al massimo è un Tarantino (autore dello script) videoclippato, L’ultimo Boyscout deriva – vuoi anche per la presenza di Bruce Willis – dal cinema di John McTiernan , mentre Spy Game e Nemico pubblico recuperano ambizioni settantesche, attingendo al sottogenere del cinema complottistico. Divaricazioni occasionali verso altri autori (appunto Tarantino, McTiernan, Oliver Stone persino) che diventano canovacci drammaturgici su cui applicare il proprio stilismo ipertrofico.
Quello di Tony Scott – a differenza dell’estetica sempre filopubblicitaria ma dilatata e scenograficamente contemplativa di Ridley – è un cinema che ha avuto sfiducia nei confronti dell’immagine fissa, prediligendo una messa in scena incentrata sull’instabilità e sulla frenesia di un montaggio rapidissimo che, per almeno una quindicina d’anni, ha riconfigurato l’estetica hollywoodiana dando per acquisita la fusione tra cinema, televisione, fotografia e marketing. Da questo punto di vista Tony nella sua saturazione stilizzata ha raccontato la (parziale) fine di un certo modo di fare cinema. Il suo postmodernismo non è mai stato tematico, non poteva esserlo, in quanto necessariamente e inevitabilmente già ontologico.
Dietro le immagini sbilenche, i travelling aerei, le zoomate e una durata media delle inquadrature che da un certo momento ha fatto fatica a superare i 4 secondi, si intravedono i contorni sfumati di un racconto ossessivo sul rapporto uomo-macchina (Top Gun, Giorni di tuono, Allarme rosso, Deja-vu, Pehlam 123, Unstoppable) che vede il suo capolavoro proprio nell’ultimo film uscito in sala. Quel Unstoppable che, ripercorrendo la traiettorie (ferroviarie) di Konchalovskij, può esser letto come manifesto programmatico ed estenuante di una poetica accelerata, dis-umana, vicina a certe dinamiche rappresentative futuriste di inizio Novecento, dove il racconto dell’uomo passava in quello sui nuovi macchinari, per arrivare a celebrare la velocità del mondo. Ecco, il legame col Futurismo e in generale con le avanguardie cinematografiche degli anni Venti è da non sottovalutare nel caos espressivo “organizzato” da Tony Scott. Il regista inglese ha creduto fino al dogmatismo che l’unico cinema possibile fosse fatto di movimento e velocità. Lo ha fatto spremendo lo stile come pochi altri e raccontando l’uomo con lo sguardo laico di chi è soprattutto innamorato nell’assemblare un’immagine dopo l’altra.
Miriam si sveglia a mezzanotte (scena d'apertura)
Giorni di tuono (sequenza Daytona)