TORINO 23 – "Ah sou", di Wong Ching-Po (Concorso)

La pellicola in concorso di Wong Ching-Po è una sorta di melodramma-action movie, un ibrido sospeso tra adolescenza e maturità, in cui alla forma scintillante non corrisponde sempre la profondità dello sguardo

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Piccole donne crescono? E' un film sospeso tra l'adolescenza e la maturità, questo Ah sou (Mob Sister), terzo lungometraggio di Wong Ching-Po, nuovissima leva del cinema di Hong Kong. Sin dall'inizio siamo proiettati nel mondo di una ragazzina di 16 anni, Phoebe (Annie Liu): motivi floreali, diari segreti, disegni…Il punto è che Phoebe è la figlia adottiva di un boss delle triadi e chiama zii i compagni di suo padre. Studia negli Stati Uniti, lontana dai pericoli, quasi fosse un fiore da coltivare in serra. Lo sguardo di Wong è molto dolce, addirittura melenso nei confronti della ragazza, al punto che quella dei quattro amici mafiosi sembra un'allegra combriccola di padri premurosi. Poi sbandare bruscamente quando il boss (Eric Tsang) viene colpito a morte: si scatena l'inferno, lotte intestine, che mettono ognuno contro l'altro e tutti contro la ragazzina capo/vittima designata. Il rosa si tinge di rosso sangue, parte per la tangente dell'action-movie, per poi virare sul melodramma, in un'orchestrazione narrativa alla John Woo. Il fatto è che Ah sou non narra di un'educazione al crimine, o meglio non è una storia di formazione: Phoebe di fronte ai pericoli non matura minimamente, rimane sempre e comunque una ragazzina di sedici anni, debole, fragile, incapace di capire le ragioni della guerra che si è scatenata intorno a lei. Ecco, proprio questa sua innocenza di fronte alla violenza degli altri produce una frizione, una tensione melodrammatica che nel finale sfocia orgogliosamente nel kitsch assoluto. Lo stile di Wong Ching-Po è fiammeggiante, lirico e sognante negli snodi emozionali, frenetico nelle scene d'azioni e poi un trionfo di ralenti, sovrimpressioni, dolly impressionanti, inserti fumettistici. Chi più ne ha più ne metta, insomma. L'impressione che se ne ricava alla fine è di aver assistito ad un grande spettacolo, splendido, ben curato, sontuoso, ma a tratti privo di profondità, incapace soprattutto di dare spessore a personaggi che rimangono relegati ad una sola dimensione (nonostante Anthony Wang e Simon Yam siano efficaci come al solito). Una festa per gli occhi, insomma, cui abbandonarsi per due ore…e basta.

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