TORINO 27 – "Call if you need me", di James Lee (Onde)
Rinunciando a quasi tutti gli elementi espliciti del gangster movie, Lee sembra comunque volerne mettere in scena in una forma “pura” le ossessioni tematiche: la lealtà, l’amicizia virile, la moralità deviata, la psicotica sete di potere. Lasciandoci intuire spezzoni di vicende svelate a mezza bocca, appena abbozzate, raccontate per allusioni, il film in betacam di questo giovane asso della new wave malese finisce per appartenere in tutto e per tutto ad un genere, il noir, che della condanna definitiva e prestabilita che incombe sui propri personaggi ha fatto uno dei capisaldi della propria “riconoscibilità”
Or Kia ha già perso, la vita lo ha già intrappolato, per sempre. Da questo punto di vista anche la sequenza d’apertura appare illuminante: la classica situazione degli amici goodfellas a cena, tra trivialità e battute, si trasforma in un momento onirico e folle in cui, drogatisi con delle pasticche, i ragazzi e le ragazze prendono a ballare in coppia per un lungo piano-sequenza a camera fissa sulle note di uno sdolcinato motivetto pop. Forse, prima dei titoli di testa, è ancora possibile sfuggire alla parabola ineluttabile del proprio destino.
Ma è probabilmente solo una via di scampo illusoria, come il fulmineo frammento finale sul mare, privo di ogni enfasi liberatoria.
Rinunciando allora a quasi tutti gli elementi espliciti del gangster movie, Lee sembra comunque volerne mettere in scena in una forma “pura” le ossessioni tematiche: la lealtà, l’amicizia virile, la moralità deviata, la psicotica sete di potere.
Lasciandoci intuire spezzoni di vicende svelate a mezza bocca, appena abbozzate, raccontate per allusioni, il regista piano piano rivela come la vera storia che vorrebbe dipanare, se non fosse davvero quella di un’esistenza frustrantemente troppo ai margini dello schermo, del quadro riempito dalle sagome dei protagonisti che continuano imperterrite a consumarsi davanti alla macchina da presa (il cugino Soon che se la passa sempre peggio, e Or Kia la cui mutazione di stile in sibilante sbruffoncello "di potere" coincide con una ulteriore scarnificazione dei tratti, e del volto sempre più enigmatico), è quella della splendida figura femminile di Ah Peng, la donna di Soon; una sorta di film parallelo che scorre sotterraneo, non visto, trasversale, celato dalle immagini che sembrano proteggerne l'intimità, l'indicibilità del trauma e del proprio passato. Affiorando sporadicamente per alcuni, corrosivi momenti di lancinante umanità, nascosta dietro l'ennesima apparenza di diffuso torpore esistenziale che è poi la cifra stilistica dell'intero film.