TORINO FILM FESTIVAL – "Non – Dit" di Fien Troch (Concorso)

La speranza in questo film arriva solo in un finale guidato dall'inspiegabile volontà di poter ricominciare, ma senza forse la verità di aver esorcizzato l'incubo della perdita. Così come lo stile della Troch,  sicura nell'instaurare con lo spettatore quell'osmosi viscerale del dolore, ma spesso incapace di segnalarlo con la semplicità di un cinema meno compresso e formalizzato.

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La scomparsa di una figlia adolescente è il terribile e lungo incubo in cui cadono i due coniugi Lukas (Bruno Todeschini) e Grace (Emmanuelle Devos). Non è l'inizio di questa tragica perdita quello raccontato dalla giovane regista belga Fien Troch, ma l'accumulo vertiginoso e devastante dopo quattro anni di assenza. Lo svuotarsi inarrestabile della vita di coppia e l'opaca vita di relazione che entrambi mal sopportano. Una lunga marcia verso la desolazione dei sentimenti. Una casa prigione in cui rifugiarsi e chiudersi per non elaborare la perdita ormai definitiva della figlia. Così il tempo trascorso da quel giorno sembra definitivamente implodere quando il telefono che squilla e rimane muto è il segnale di una possibile presenza anche lontana della figlia. Un fantasma che separa ancor di più i volti e i i corpi di Lukas e Grace. Entrambi deboli e entrambi incapaci di aiutarsi in questa difficile risalita. Scarnificati nel profondo si appoggiano a ciò che rimane, senza forza e capacità di reazione. Un cinema, quello della regista Fien Troch, avidamente ispirato all'esistenzialismo immaginifico del nostro Antonioni, là dove anche anche ciò che è puramente fisico come il soffitto del loro soggiorno inzia improvvisamente a bagnarsi con un crepa. Tutto si impregna del dolore irrisolto. E la camera da presa, guidata spesso a mano (zona Dardenne), schiaccia e incorncia ossessivamente questi due volti. Marito/padre e Moglie/madre. Lunghi primi piano inondati della sguardo dei due volti così vuoti di vita. Tutto ciò che li circonda si inaridisce e si sfoca. Così come la semplice quotidianità fatta di duri imbarazzi e bugie per coprire ciò che non si è ancora detto, tutto è abbandonato e coperto da questo velo di dolore, imprenetrabile ad entrambi. La speranza in questo film arriva solo in un finale guidato dall'inspiegabile volontà di poter ricominciare, ma senza forse la verità di aver esorcizzato l'incubo della perdita. Così come lo stile della Troch,  sicura nell' istaurare con lo spettatore quell'osmosi viscerale del dolore, ma spesso incapace di segnalarlo con la semplicità di un cinema meno compresso e formalizzato.

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