TWIN PEAKS – Il volto di Kyle MacLachlan
Dale Cooper/Dougie Jones, Jeffrey Beaumont, Paul Atreides, il Capitano di How met your mother, il marito di Sex and The City/Desperate Housewife: il marchio del Disturibante. Da #SSMagazine n.27
da Sentieri Selvaggi Magazine n.27 – CIVILTÀ PERDUTA
All’inizio de La teoria della sirena, l’undicesimo episodio della sesta stagione della fortunata serie How met your mother, il gruppo di amici capitanato dall’insopportabile Ted si ritrova, da copione collaudato della sit com, a chiacchierare davanti a un cartoccio di cibo cinese. L’argomento della conversazione è il motivo del perché il Capitano, marito di una delle tante fiamme del protagonista e interpretato da Kyle MacLachlan, sia così inspiegabilmente inquietante. La risposta è presto detta. Sottolineato da dimostrazioni fisiche costruite su una gigantografia del suo ritratto frontale, il motivo del respingente terrore che turba le vuote chiacchiere di questo gruppo di rassicuranti giovani newyorkesi è situato nel compromesso ambiguo del suo volto, dove il sorriso accomodante e accogliente da uomo di successo deve sposarsi con dei occhi crudeli da sociopatico. Ecco svelato l’arcano: ancora una volta il motivo che rende “osceno” ai borghesi e vuoti eroi di questa storiella americana, fatti da lineamenti burrosi ed espressioni scontate, è l’incapacità di sostenere il confronto con una faccia che, nelle sue rughe, custodisce, allo stesso tempo, il paternalismo più mediocre e inoffensivo e le sue atroci derive, le sue sporche pulsioni, i suoi terribili misteri. E’ questa la differenza sostanziale: mentre i protagonisti di HMYM hanno svenduto le proprie bellezze inoffensive a narrazioni tradizionali, il volto di MacLachan è diventato, in televisione, il marchio del Disturbante, rappresenta alle volte dall’ambiguo agente FBI, dall’avvocato truffaldino o dal politico-capitalista ambizioso.
Sono passati decenni da quando David Foster Wallace, in uno dei suoi tanti, sublimi, sfoggi di lucida e gratuita crudeltà, etichettava MacLachlan come un “nerd dalla faccia di patata”. L’attore, pur non avendo trasformato la sua “assurda fisionomia” in un marchio di fabbrica (troppo banale per diventare un divo belloccio alla Clooney, troppo pulito per essere un affascinante freak alla Walken), ha saputo attraversare, meglio di molti altri, la televisione degli ultimi venti anni. Il percorso coerente di Kyle lo ha visto passare da padre-fondatore della serialità (attore affermato, abbracciò con sfida il piccolo schermo ben prima della moda interpretativa odierna) a figura chiave, bislacca e confusionaria, della televisione mainstream di oggi, specie quella fatta da prodotti rivolti al pubblico femminile della classe media. La sua continua presenza fuori posto nell’immaginario visivo statunitense, villain Marvel o marito benestante in Sex and The City/Desperate Housewife non è importante, è l’evidente traguardo “autoriale” di un interprete che ha saputo cavalcare quell’ambiguo equilibrio fisiognomico che, agli inizi degli anni 80, conquistò David Lynch.
Chissà se il regista di Una storia vera sorride pensando che l’incontro con il suo alter- ego preferito è avvenuto nel modo più tradizionale possibile, in una storia che sembra uscita fuori dagli aneddoti cinefili degli anni cinquanta. La pachidermica produzione di Dune cerca una giovane star a cui affidare il kolossal. Dopo centinaia di provini, di video visionati e di file interminabili di aspiranti attori, ecco scoccare il colpo di fulmine tra regista e interprete. Probabilmente come notato da DFW, nel famoso articolo da cui è presa la citazione del nerd e della patata, la scelta di MacLachlan, ancora troppo giovane, nei panni del messianico eroe Paul Atreides fu un chiaro esempio di miscasting (eppure, attore appena ventenne ma dalla sorprendente padronanza recitativa, Kyle nei provini dimostrò un carisma e una conoscenza del testo originale di Frank Herbert talmente impressionante da convincere perfino Dino De Laurentiis) ma “l’errore” di Dune, nato dalla cornice più mainstream possibile, ha generato uno dei più forti cortocircuiti cinematografici.
Un famoso scrittore scrisse che ogni autore è nato per raccontare una sola storia. Parafrasando impunemente la bella massima ci sentiamo di dire che anche Kyle MacLachlan è nato, solo, per raccontare la storia di David Lynch. Il regista vide nel ragazzo qualcosa di sé, della sua infanzia, di quel legname e di quei boscaioli per lui, da sempre, immagine radicata di un’America superficialmente felice e ottusamente topica. Da Velluto Blu in poi, David usa Kyle e Kyle ritrova David, in un gioco delle parti che, ballando sulla superficie incrina le maschere e i veli dell’apparenza. Sappiamo bene che tra le tante, troppe, riflessioni e interpretazioni del cinema di Lynch quella della “rottura dell’ipocrita superficie della società americana” sia quella più immediata e scontata. Eppure gli sguardi attraverso le crepe di quel benessere fatto da villini a schiera, prati appena falciati e fette di apple pie, il ritrovarsi di fronte all’abisso dell’otherside mantengono sempre una forza destabilizzante spropositata. L’altro lato accarezzato in Velluto Blu, immaginato nelle prime stagioni di Twin Peaks e, finalmente, ammirato nel revival di questi giorni, si conferma la realtà inconscia e disgustosa che freme sotto tutto il nostro vissuto, che cerchiamo di nascondere con le nostre bugie e con le nostre abitudini. Quel mondo sommerso che, risorgendo sul volto del Capitano MacLachlan, terrorizzava gli inutili amici di How met your mother e che, nel triplo volto dell’attore nel nuovo Twin Peaks, trova, alla maniera degli indiani Yakama, il definitivo totem-portale.