Un beau matin, di Mia Hansen-Løve

Alla Quinzaine, Hansen-Løve affronta la malattia come sfasamento tra corpo e pensiero, razionalità e sentimento. E ancora una volta il vero veicolo delle emozioni sono i libri sulle nostre mensole

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Per raccontare la passione che divampa tra Sandra e Clément, amici da una vita che improvvisamente si ritrovano amanti per via di un’attrazione innanzitutto fisica irresistibile tra i due, Mia Hansen-Løve si affida alle parole. Più che evocata dal magnetismo tra i corpi, questa sensualità è ripetutamente dichiarata a voce tra i protagonisti, con battute e messaggi del tipo “trovo il tuo corpo irresistibile”, e così via. Tutto Un beau matin si gioca proprio sullo sfasamento tra il pensiero e l’impulso fisico, tra la mente e i corpi: il predominio del corpo viene costantemente negato, rifiutato da Sandra (Léa Seydoux, interprete che incarna perfettamente le due anime di questa storia), la quale non vuole rassegnarsi all’Alzheimer che ha colpito il padre filosofo e scrittore, annebbiandone appunto l’arma più affilata, il suo pensiero.
E così, mentre con la madre e la sorella deve svuotare l’appartamento dell’anziano, trasferito in un centro specializzato, Sandra si aggira per le stanze del sapere del padre, pareti di librerie, collezioni di macchinine e quaderni fitti di appunti sull’avanzare della malattia, cercando di tenere viva attraverso quegli oggetti una connessione con l’anima intellettuale del genitore, che nella realtà va svanendo di giorno in giorno. Come ne L’avenir, sono allora i libri gli effettivi personaggi che si fanno veicolo dei sentimenti, Kafka, Goethe, Adorno… “mi sento più vicina a lui attraverso i libri che parlando con la persona che vive ormai in quella camera d’ospizio”. Anche perché Sandra odia l’intrattenimento popolare come i cartoon stile Frozen che invece adora la piccola figlia, la quale è costretta pure lei ad inventarsi un acciacco fisico inesistente, un dolore al ginocchio, per poter zoppicare per un po’, e partecipare così anche lei a questo esorcismo familiare contro la percezione fisica della sofferenza, da tenere a distanza. Entra nel gioco anche Clément, l’amico diventato amante, che analizza la sua relazione sentimentale fedifraga alla stessa maniera con cui disseziona gli asteroidi del suo lavoro di scienziato.

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Mia Hansen-Løve continua insomma il suo percorso in cui sembra adoperare il cinema come strumento di una archiviazione in progress di emozioni autobiografiche appuntate in forma di catalogo d’immagini: questa opera di razionalizzazione la tiene di sicuro al riparo dalle trappole facili delle storie sulle malattie terminali dei nostri cari (emblematica la sequenza del recital canoro nel centro anziani a cui la protagonista si sottrae con decisione), ma allo stesso tempo conferma la tendenza di questo cinema a una posizione di sottrazione che alla lunga può diventare frustrante per la materia stessa del racconto (qui ne subiscono le conseguenze soprattutto le figure di contorno, o le storie sullo sfondo come la famiglia “ufficiale” di Clément).
Il paradosso di uno sforzo così dichiarato sull’autocontrollo (anche formale, con una regia votata al minimalismo) è che potrebbe sembrare approntato a difesa di una latente indecisione sulla strada da prendere, sulla posizione da assumere: ma d’altra parte, anche questo è probabilmente un raddoppio sulla situazione di stallo e torpore esistenziale in cui rimane perennemente incastrata la protagonista.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.8
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Il voto dei lettori
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