Una notte di 12 anni – Incontro con Álvaro Brechner

In occasione dell’uscita nelle sale italiane di Una notte di 12 anni abbiamo incontrato il regista, Álvaro Brechner, che ci ha raccontato genesi e lavorazione del film su Josè Mujica visto a Venezia

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Il nuovo film di Álvaro Brechner, Una notte di 12 anni, arriva oggi nelle sale romane e in tutt’Italia domani, 10 gennaio 2019. Abbiamo avuto l’occasione di incontrare il regista nel cinema Quattro Fontane di Roma. Brechner ci ha parlato per molto tempo del suo film, il riassunto di tanti anni di ricerca. Il film tratta di una vicenda realmente accaduta a nove uomini nel settembre del 1973 in Uruguay. Presi in esame solo tre di questi, viene raccontata la loro lunga detenzione in isolamento durato 12 anni all’interno di diversi luoghi di prigionia dello Stato, in quel momento governato da un regime dittatoriale militare.

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Il regista ci ha raccontato come il suo vero intento fosse quello di indagare cosa accadeva nelle menti di queste persone durante la loro lunga detenzione e di come esse siano riuscite a mantenere una lucidità, seppur precaria, durante quei lunghi anni di terrore. “Questo film ha due livelli” – ci spiega Álvaro – “nel primo si trova quello astratto e storico, ma per me quello più importante è il secondo che riguarda il dibattito esistenziale che si trova all’interno. Che tipo di lotta si innesca nell’essere umano che gli consente di restare tale anche in circostanze estreme? Ci sono stati tanti anni in cui io ho tentato di capire perché il linguaggio stesso dell’uomo non riesce a rappresentare l’orrore, quindi per me è stato importante parlare con neurologi per capire come il cervello possa sopravvivere in quelle circostanze.”

Sono tanti gli aneddoti che il regista ricorda con estrema chiarezza che rappresentano incontri avvenuti con gli stessi detenuti, dalle sue parole immaginiamo come siano stati questi gli elementi che gli hanno permesso di entrare a fondo dentro la storia, ad esempio ci racconta: ”Ero lì nella sala presidenziale con Josè Mujica, Mauricio Rosencof e Fernàndez Huidobro e Mujica ad un certo punto dice: sono tantissime le mattina in cui mi sveglio e rimpiango la cella. Io sono rimasto scioccato da questa affermazione e gli ho chiesto come si possa rimpiangere una situazione del genere e la sua risposa è stata: Mai ho avuto così tanto tempo per essere me stesso, sono stati i 12 anni più orrendi della mia vita, eppure oggi non sarei quello che sono se non gli avessi vissuti. Ho riscontrato che è vero quello che vivono tante persone quando vengono private di tutto ciò che rende un uomo un uomo. C’è sempre la possibilità di rifugiarsi in un ambito intimo e personale come quello dell’immaginazione e in questa trovare qualcosa che dia la dignità di essere uomo. Perciò penso che questa non sia stata solo un’esperienza di sopravvivenza ma in un certo senso è stata un’esperienza di illuminazione e di scoperta, che ti permette non soltanto di sopravvivere ma anche di guardare al futuro con speranza.” Questi uomini, riunitisi dopo vent’anni a rivangare quei terribili ricordi non fanno che ridere, raccontando cose tremende e ridendo. Il regista ci racconta come fosse incredulo di tutto questo ma come forse questo sia un meccanismo di difesa dell’essere umano. Uno dei tanti meccanismi di difesa che questi uomini sono stati indotti ad adottare per sopravvivere.

Essendo questa una terribile storia di una passato non troppo lontano, è curioso vedere come questo film sia stato accolto dal pubblico, essendo questa una ferita ancora aperta nella memoria di queste persone. “Il cinema ha i suoi limiti in questo, non può saldare conti che un Paese non è ancora riuscito a saldare. Anche per questo motivo la mia non è stata la scelta di fare un film sulla dittatura, altrimenti avrei dovuto analizzarla da altri tremila punti di vista. Il mio intento era indagare cosa avviene all’interno di una mente umana. Allo stesso modo, dall’uscita di questo film, ho avuto modo di vedere come questo abbia generato una sorta di catarsi nelle persone, da questo si vede come questo film sia in grado di scatenare il bisogno di libertà che esiste all’interno di ogni persona. E se da una parte mi rallegra questa reazione al film, dall’altra mi preoccupa molto che ci sia questo bisogno di catarsi che la dice molto lunga sui pericoli che oggi ci sono nel mondo.”

Per ultimo si parla delle canzoni presenti nella colonna sonora, specialmente di una in particolare, la versione di The sound of Silence interpretata da Silvia Pérez Cruz, che vediamo anche in una parte nel film. “Un giorno ero in un bar e lavoravo alla sceneggiatura, ad un certo punto nel bar è partita questa canzone e io ho iniziato a cantarla a bassa voce e nella mia mente. Solo allora mi sono reso conto di quanta pertinenza ci fosse tra la storia e le parole della canzone. Essere nell’oscurità e trovare in essa una rivelazione, imparare ad ascoltare il silenzio.

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