Veins of the World, di Byambasuren Davaa

Una Mongolia che sofferente assiste alla sua ennesima depredazione è lo sfondo del nuovo film della regista di La storia del cammello che piange. Al FESCAAAL in streaming

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Dalla misteriosa Mongolia e dalla sua regista Byambasuren Davaa – già autrice insieme a Luigi Falorni di La storia del cammello che piange, passato sugli schermi italiani ormai alcuni fa – arriva al Festival di Milano il nuovo film ambientato nel suo sconfinato Paese e intimamente legato nell’evolversi della vicenda alla cultura dei suoi abitanti nomadi, le cui tradizioni sono irrimediabilmente intaccate dalla aggressività economica globale.
Veins of the world, nella sezione del Concorso del Festival di Milano, assume molteplici significati e se le vene del mondo, come quelle degli esseri umani, servono a trasportare nel corpo la linfa che ci permette la vita, il loro ostruirsi porta alla morte. In questa allusione risiede una delle direzioni della storia, l’altra più intima riguarda Amra il ragazzino di undici anni protagonista della storia. Amra vive nella capanna con la madre Zaya, il padre Erdene e la sorellina Altaa, va a scuola ed è anche bravo. Un giorno la maestra annuncia che Mongolia’s got talent farà i provini in quella regione. Amra sa cantare e vuole partecipare. Il padre, che alleva pecore e capre con gli altri allevatori, si oppone allo sfruttamento della terra da parte delle multinazionali che hanno aperto cave enormi per la ricerca dell’oro. Un quinto del territorio della Mongolia, ci avvisa la regista, è destinato a questo sfruttamento intensivo. Un incidente d’auto al ritorno dalle selezioni dello spettacolo televisivo provoca la morte di Erdene, il piccolo Amra si salva, ma la sua vita prenderà un’altra piega oppresso dal senso di colpa per la morte del padre. Se non fossi andato a cantare, papà non sarebbe morto, dirà alla madre.

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Una delle componenti del film è la bellezza dei luoghi, ma fanno da contraltare le ferite inferte a questi territori dalle cave, che scendono e scavano le stratificazioni della terra lasciando voragini. In una di queste è caduta l’auto di Erdene che in quella occasione ha perso la vita. È questo episodio che ostruisce le vene della vita anche per Amra, che infligge a sé stesso delle punizioni che sente necessarie per espiare la colpa di avere causato, sia pure indirettamente, la morte del padre. Veins of the world diventa così un racconto su un senso di colpa infantile – ancora un bambino protagonista in questa 30esima edizione del Festival – e su una colpa più generale che riguarda l’intera Mongolia. Si alternano nel racconto questi due sentimenti, che sembrano trovare quella unicità nella complessa psicologia del piccolo Amra forse destinato ad una vita differente, ma adesso consapevole del suo ruolo maschile accanto alla madre e alla sorella nella famiglia privata del padre. Il suo percorso di lavoratore di nascosto della madre, saltando la scuola, diventa così anche un rituale di iniziazione alla vita, alla stanchezza, a sfidare i pericoli, per dare sicurezza economica alla famiglia.
Byambasuren Davaa interviene su questi temi rapportando la modernità dello spettacolo televisivo alla vita nomade e pastorale e, per altro verso, rapportando la devastazione ambientale che la Mongolia sopporta con la necessità di preservare una cultura antica, che fonda proprio sulla conservazione dell’habitat la sua perpetuazione. Il film corre dunque su due livelli differenti, la vicenda privata con i turbamenti e i sensi di colpa di Amra, e, su un altro piano, ma legato all’altro, le vicende di un intero popolo, il bisogno di conservazione dei valori, ma soprattutto l’esigenza della tutela e conservazione del territorio. Due piani di racconto che si legano attraverso il personaggio di Erdene, a capo della contestazione contro gli sventramenti delle compagnie minerarie. Il testimone passa al figlio e soprattutto alla moglie che continuerà con le armi che possiede a combattere la difficile battaglia.

Veins of the world dimostra, ancora una volta, le potenzialità di un cinema che pur nelle apparenti lontananze culturali e geografiche su cui lavora rispetto a quello più mainstream, sa mostrare la forza di una necessità del racconto, l’esigenza di manifestare la propria condizione, senza infingimenti e senza remore. Byambasuren Davaa firma un film con una carica emotiva molto forte, che riflette una conoscenza attenta della psicologia infantile. Amra con la sua natura remissiva obbedisce ciecamente alle direttive del padre, ma la morte del genitore trasforma anche la sua indole, il suo atteggiarsi nei confronti della vita, con l’acquisizione di un coraggio che sa di necessità e di sopravvivenza e una sorda ostilità nei confronti del mondo. Sentimenti che sapranno sciogliersi nell’abbraccio con la madre e nel confessare i suoi sensi di colpa. Sensi di colpa che invece non appartengono agli emissari di un capitalismo iniquo e distruttivo, di cui l’incolpevole Amra e la sua famiglia sono tra le vittime predestinate, insieme al resto di una Mongolia che sofferente assiste a questa sua ennesima depredazione.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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