VENEZIA 59 – Guardare il nulla : "The Tracker", di Rolf de Heer

De Heer si appropria vergognosamente di un genere classico (ma il western o il musical?) smembrandolo senza rispetto, condizionandolo con un didascalismo senza pudore in cui un interminabile e tormentoso motivo sonoro sottolinea le azioni e gli stati d'animo

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Guardare il nulla. Dentro ogni inquadratura di The Tracker di Rolf de Heer (regista olandese di nascita ma australiano di adozione) sembra esserci veramente il vuoto. Pur raccontando la storia di uno spostamento, quello di tre poliziotti a cavallo e di una guida aborigena che stanno inseguendo un fuggiasco nell'outback australiano del 1922, gli scenari non sembrano mai cambiare e i protagonisti mai muoversi. Se già in passato quello di de Heer era un cinema fastidosamente sensazionalistico nel suo tentativo di essere disturbante e provocatorio (Bad Boy Bubby o Balla la mia canzone), The Tracker si può abbinare a quella tetra immobilità di La stanza di Cloe. Pur nel movimento, la foresta di The Tracker è una sorta di Kammerspiel. E' strano come la macchina da presa non riesca a estendere uno spazio sconfinato. Ma soprattutto è strano come il western di de Heer non possieda mai neanche il minimo coinvolgimento all'azione, con quattro personaggi sulla scena che non producono il minimo coinvolgimento, la minima adesione o rifiuto alle loro motivazioni. De Heer si appropria vergognosamente di un genere classico smembrandolo senza rispetto, condizionandolo con un didascalismo senza pudore in cui un'interminabile e tormentoso motivo sonoro (il tentativo di un musical sugli aborigeni?) sottolinea le azioni e gli stati d'animo.

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Tutte le opere uscite in Italia del cineasta australiano confermano quella sensazione di un cinema senza totale identità, che rappresenta il proprio universo con una pigrizia che sembra rasentare il menefreghismo. Delle terre australiane degli anni Venti, delle forme tribali di cultura aborigena non si sente neanche il più impercettibile respiro. Solo primi piani sui volti, movimenti improvvisi (l'aborigeno che, legato a una catena, si lancia nel fiume portandosi appresso il tenente sadico), scene culminanti (l'impiccagione del tenente, il ritrovamento del fuggiasco) dove invece non sembra che sia successo proprio nulla. De Heer non è Bresson che riesce a ridurre ogni forma di narrazione alla sua estrema essenzialità. Qui invece il nulla sembra produrre caos. Ma le immagini di de Heer sono come le immagini "bianche", con un'illuminazione sempre finta, dove anche la luce naturale ha quella gelida stasi di quella artificiale.


In un festival dove il concorso si sta caratterizzando comunque con un livello medio quantomeno discreto, The Tracker è la scelta più "sorprendente" tra i film selezionati per aggiudicarsi il Leone d'Oro.  

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