VENEZIA 61 – "Palindromes", di Todd Solondz (Concorso)

Questa "prospettiva escheriana" del film genera un caleidoscopico mondo richiuso in sè stesso, immutato e immutabile che compie il prodigio di farci vergognare (o almeno interrogare) sul nostro ridacchiare di quell'amore non corrisposto, proibito, egoistico che, volenti o nolenti, ci unisce tutti.

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Proprio come i palindromi, parole come "Anna" che si possono leggere indifferentemente da sinistra a destra o dall'alto verso il basso e nei sensi opposti, il cinema di Solondz si può provare a leggere in ogni direzione ma quando ci si sente sicuri di averlo catturato, eccolo che vola via su un ramo ancora più alto e ti guarda con occhio provocante.  Sono le storie di "ordinaria" follia del regista americano, questo Haneke della tragi-commedia per il quale "acidità", "imbarazzante dissacrazione", "glaciale sguardo", "controversa e ambigua (a)moralità" sono termini ed espressioni insufficienti a definirne la dirompenza di eccezionale originalità e… (ebbene sì) umanità. Intorno a quella tavola imbandita ed avvolta da aureolata accoglienza cristiana della famiglia Sunshine, troviamo browninghiani "freaks" che ci prendono per mano e ci trasportano in una dimensione incredibile: quella della realtà, dell'assoluta normalità. L'amore che fluisce tra le carni e le anime di questa famiglia allargata sembra di un altro pianeta: Solondz ci fustiga, così, nel profondo perché ci sbatte in faccia la naturalezza di ciò che dovrebbe essere consueto, assolutamente spontaneo e che viene invece puntualmente contraddetto dalle atrocità perpetrate ogni giorno. Aviva è più che "una e trina", è un gioco di specchi continuamente frantumato e ricomposto interpretato da due donne, quattro ragazze tra i 13 e i 14 anni, un ragazzo di 12 e una bambina di 6, eppure questa "prospettiva escheriana" genera un caleidoscopico mondo richiuso in sè stesso, immutato e immutabile che compie il prodigio di farci vergognare (o almeno interrogare) sul nostro ridacchiare di quell'amore non corrisposto, proibito, egoistico che, volenti o nolenti, ci unisce tutti. E questo asettico chirurgo di dolce brutalità si dimostra infallibile anche per l'ammirevole scelta e direzione degli sconosciuti visi e del prolungamento che si trova al di sotto di essi, guidati da un'encomiabile Ellen Barkin che sussurra alla figlia, in ingannevole sotto-tono, le sue ineluttabili posizioni. Comunque, se c'è qualcuno che si chiede da dove salti fuori questo cinema (e in tal caso è proprio necessario rivedere i precedenti Fear, anxiety & depression, Fuga dallla scuola media, Happiness, Storytelling), basta guardare la foto nel catalogo della Mostra scattata all'autore per capire che Solondz non potrà mai girare (o almeno questa è la nostra speranza) un film canonico e che senza "lasciarsi andare" (come invita nel press-book) non si avranno mai le chiavi per entrare nel suo regno.

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