VENEZIA 61 – Sag-haye velgard (Piccoli ladri), di Marziyeh Meshkini (Concorso)

Dalla "Factory Makhamalbaf" emerge la trentacinquenne Marziyeh Meshkini, già aiuto regista di Mohsen e Samira. In parabola discendente (facendo dovute eccezioni), il cinema iraniano e anche questo film rischiano di perdersi nell'isolamento figurativo e ruffiana speculazione.

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Dalla "Factory Makhmalbaf" emerge la trentacinquenne Marziyeh Meshkini, già aiuto regista di Mohsen e Samira (padre e figlia). L'autrice era stata a Venezia nel 2000 ricevendo anche il premio Cinemavvenire con Roozi khe zan shodam. I piccoli ladri frugano tra le macerie e il cinema iraniano (quasi tutto ormai) è solo un lampo, uno spasmo estetizzante che non reitera, non gira su se stesso, ma vuole mostrarsi più maturo e compiuto. Preferenze visive occidentali rimpiangono il primo Kiarostami che ha rinnovato sguardi minimalisti e ritrovato lo straordinario nell'ordinario. Non è più così, o meglio, questo cinema vuole proporre altro e c'è sempre Naderi che si staglia nel firmamento splendendo di luce propria. Podista del movimento cinema, fuori dai generi e sui generi, duro e caotico, tra ulivi, frumento, cemento e metropoli.  Le imperfezioni (non eccelle come lavoro sugli attori) o le incongruenze (i bambini sembrano perfetti per i caroselli) del film lasciano l'amaro in bocca pur regalando squarci intuitivi di grande impatto. Coinvolgenti sono alcune trovate. Come quella delle prime sequenze in cui dei bambini rincorrono con delle torce un piccolo cane perchè mandato dagli americani. E ancora, il riferimento metalinguistico e favolistico a Ladri di biciclette perchè i due bambini protagonisti cercano l'espediente per farsi arrestare: l'unica soluzione per raggiungere in prigione la madre accusata d'adulterio. Ma riuscita pienamente è la scena dei combattimenti tra cani: la folla è impressionante, lo spettacolo ripreso con taglio documentaristico rianima quel poter neorealista più sincero e deflagrante. Piccoli bagliori di vitalità che però rischiano di perdersi nell'isolamento figurativo e ruffiana speculazione. Meshkini racconta Kabul ma ciò che ha visto, l'ha trovato e ritoccato senza catturare l'evidenza, per cui le immagini si caricano eccessivamente di senso esterno. Il mondo non si muove su se stesso in direzione del suo continuare semplicemente ad essere. Dell'immagine non resta la sua nudità, la sua superficie quanto mai profonda. Sono i segni a sostituire ovunque lo sguardo e non si mobilitano verso il reale quasi accorpandosi o fondendosi con esso. Gli angoli dell'essenza cedono alla rappresentazione rinunciando alla presenza. Non riflettere un fuori, ma aprire il dentro dall'interno è soltanto un auspicio deluso…         

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