VENEZIA 61 – "The Land of Plenty", di Wim Wenders (Concorso)

Tra l’innocenza di Lara e l’ossessione di Paul, Wenders salta da personaggio all’altro nel tentativo di ricomporre un curioso quadretto familiare, con due modi opposti per affrontare il nuovo scenario mondiale. Lara è lo sguardo di Wenders, eppure il regista tedesco ha una predilezione per questo suo personaggio un po’ folle, stralunato, fuori di se

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Ancora l’America, per Wim Wenders. Terra-Paese amato/odiato, bramato, luogo dove ogni volta sembra ritrovarsi per poi, di nuovo, rifuggirne. E il non luogo Hollywodiano di Hammett, del duro scontro con l’industria, seppur sotto l’egida coppoliana, oppure il deserto samshepardiano di Paris Texas, o l’universo eccentrico di Million Dollars Hotel, per non parlare di quel Nick’s Movie, che ancora si fatica a capire quanto appartenga al regista tedesco e quanto agli ultimi respiri di Nicholas Ray. Ma l’America è forse addirittura più presente nei film “europei”, nell’ottica di quella “colonizzazione del subconscio” di cui Wenders parla dall’epoca di Nel corso del tempo.

Oggi l’America è il mondo, e le elezioni americane, la rielezione o la sconfitta di Gorge W. Bush, è qualcosa che appartiene, nostro malgrado, a tutto il mondo, come se fosse un’elezione del presidente planetario… da cui dipendono i destini e gli orrori possibili di gran parte dei cittadini del mondo. E Wenders, come del resto Spike Lee nei suoi titoli di testa, non pare proprio voler sfuggire a questa centralità del presente, quel mondo post 11/9 che sembra proprio impossibile ignorare.

Un mondo fatto di orrore e terrore, di guerre preventive e di attentati suicidi. E quando l’amica israeliana di Lara (Michelle Williams), gli manda per e-mail le immagini degli ultimi attentati, “per non farti rimpiangere qui”, siamo di colpo scaraventati in questo “medioriente globale” che sembra ormai essere diventato il pianeta. Lara è americana, di nascita, giovane ventenne che ha vissuto un po’ dappertutto al seguito della madre impegnata come missionaria, tra l’Africa e l’Europa. Torna nel paese natio dove l’unico parente rimastole è uno zio che da anni non risponde alle lettere della madre, Paul (John Diehl). Un ex berretto verde, in congedo, veterano della guerra del Vietnam di cui ancora porta i segni vistosamente nel suo comportamento. Gli eventi dell’11 settembre gli hanno come rilanciato il trauma dalle guerra, e Paul va in giro con un furgone attrezzatissimo alla ricerca di possibili attentatori, in una personalissima guerra al terrorismo. Wenders ondeggia tra i due personaggi, l’innocenza di Lara e l’ossessione di Paul, salta da uno all’altro nel tentativo di ricomporre un curioso quadretto familiare, con due modi opposti per affrontare il nuovo scenario bellico mondiale. Si capisce che Lara è lo sguardo di Wenders, eppure il regista tedesco ha una predilezione per questo suo personaggio un po’ folle, stralunato, fuori di se, che a tratti sembra uscito da 1941 allarme a Hollywood di Spielberg/Zemeckis, e il film lo segue come un’ombra, con la stessa folle malinconia con la quale Paul pedina gli arabi sospetti, e indaga sulla morte di uno di loro di cui è stato testimone diretto. E a un certo punto davvero sembra che Wenders si perda, come il suo protagonista, sembra vaneggiare un cinema che racconta un’ossessione in cui non crede, troppo chiaro e forte appare il suo punto di vista diverso dal suo personaggio, per cui noi già sappiamo che l’arabo ucciso era innocente, che sono stati dei ragazzacci bianchi a farlo fuori, e che i criminali vanno ricercati da un’altra parte. E’ curiosa questa strana passione per un personaggio che non si ama affatto e non si fa nulla per renderlo amabile, nonostante l’interpretazione di John Diehl. E quando Wenders alla fine ci regala il suo magnifico sermone finale, con le parole dolci di una “bella persona” come Lara (non credo che i tremila morti dell’11 settembre avrebbero voluto vedere altri morti in loro nome), stentiamo a capire perché non abbia voluto approfondire il personaggio che amava e si è invece ricacciato nella palude del reduce del Vietnam di cui non aveva così tanta voglia di raccontarci poi molto. Colpa di Michael Meredith, lo sceneggiatore, forse. E peccato che non abbia ritrovato Sam Shepard, nelle cui mani un copione del genere sarebbe diventato esplosivo.

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