VENEZIA 62 – "Before It Had A Name", di Giada Colagrande (Giornate degli Autori)

Che questa sia una storia scritta insieme dalla Colagrande e da per esorcizzare, esplicitandole, paure ed angosce personali, piuttosto che per raccontare davvero perversioni e oscurità, è il dubbio che rimane in chi guarda il film. Ciò che lo lascia chiuso in se stesso, impedendogli di coinvolgere e terrorizzare, come forse avrebbe voluto.

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Una donna (Giada Colagrande) riceve in eredità dal suo amante, morto in circostanze misteriose, una strana casa di gomma, isolata nella campagna newyorchese. Vi si trasferisce alla ricerca di un passato che ignora e che finisce per sconvolgerla. Trova, però, ad attenderla un affascinante ed enigmatico custode (Willem Defoe).

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Storia di amanti che condividono il letto e il presente, ma non il passato e la memoria di ciò che è stato. Storia di fantasmi che infestano e ostacolano vita e sentimenti. Annosa questione di incomunicabilità e solitudini, destini che si incrociano, ma non si sovrappongono, sfuggendo l'uno all'altro. Carica di elementi che dovrebbero tingerla di ambiguità e perversione, questa è la storia delle più ovvie e conosciute dinamiche di coppia. L'idea poi non proprio inedita che ciascuno debba fare i conti con ciò che di insoluto c'è nella propria vita e in quella della persona a cui ci si trova uniti dal caso e da eventi inaspettati. L'evidenza scontata che si finisce, sempre, per dire ti amo quando è già troppo tardi.


Che questa sia una storia scritta insieme dalla Colagrande e da Defoe (compagni nel film e nella vita) per esorcizzare, esplicitandole, paure ed angosce personali, piuttosto che per raccontare davvero perversioni e oscurità, è il dubbio che rimane in chi guarda il film. Ciò che lo lascia chiuso in se stesso, impedendogli di coinvolgere e terrorizzare, come forse avrebbe voluto. Così che anche gli ambienti claustrofobici di una casa isolata in una campagna innevata e silenziosa, finiscono per rimandare a quelli intimi e segreti di un'alcova, piuttosto che a quelli inquietanti dello Shining, certo un po' troppo addolcito, che la regista forse aveva in mente. 


C'è poi la convinzione evidentemente compiaciuta che ciò che non ha un nome e non può essere definito in alcun modo sia per se stesso degno di interesse, per la sua ricchezza e la sua intrinseca indecidibilità. Convinzione borghese come tutte le convinzioni troppo schiettamente anti-conformiste e provocatorie. Soprattutto oggi dopo decenni di contestazione. Allora ciò che si voleva rigettare finisce per schiacciare ed impoverire. E ci si trova a  parlare solo di se stessi, dimenticando quello che di autentico c'è in ogni vera ribellione: l'apertura a tutto ciò che sta appena al di fuori di noi.

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