VENEZIA 63 – "Ana alati tahmol azouhour ila qabriha" (I am the one who brings flowers to her own grave) di Hala Alabdalla, Ammar Al Beik (Orizzonti)

Autrice siriana da quasi trent'anni esiliata a Parigi con la famiglia per motivi strettamente politici la Alabdalla, con l'aiuto di Ammar Al Beik, ha messo insieme un diario privato dalla durata di quasi due ore. Un documentario autobiografico in bianconero, in digitale, composto da interviste fatte ai propri famigliari.

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"Con questo film voglio mettere insieme tutti i film che non sono riuscita a fare in 20 anni" dice a un certo punto la regista Hala Alabdalla. Autrice siriana da quasi trent'anni esiliata a Parigi con la famiglia per motivi strettamente politici, la Alabdalla, con l'aiuto di Ammar Al Beik, ha messo insieme un diario privato dalla durata di quasi due ore. I am the one who brings flowers to her own grave (Io sono colei che porta i fiori sulla sua tomba) è un documentario autobiografico in bianconero, girato in digitale, composto da interviste fatte ai propri famigliari. Un vero e proprio collage di confessioni private davanti a una telecamera amatoriale, inframmezzate, qua e là, da riprese in esterno che ritraggono frammenti di vita rubata (donne che lavorano dentro una fabbrica, stormi di uccelli in volo, paesaggi che scorrono attraverso il finestrino di un'auto, festeggiamenti parentali, ecc.). E' un'opera che nasce dall'intenzione di immortalare il ritorno da parte dell'autrice e della sua famiglia a Damasco, dopo anni di assenza, attraverso una sorta di indagine a ritroso su eventi e ricordi collettivi.

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In tal senso, a mano a mano che I am the one who brings flowers to her own grave prende quota, il film della Alabdalla non diventa più solo il 'suo' film, ma anche il film delle persone a lei vicine che si raccontano, rivivono il proprio passato, esplicitando rimpianti dolorosi e orgogliose rivendicazioni etiche. E' soprattutto su quest'ultimo punto che il documentario di Hala Alabdalla e Ammar Al Beik si dimostra interessante, soprattutto per come affronta il concetto di 'scelta', le conseguenze che le scelte, di natura politica nel caso dei personaggi intervistati, comportano nell'arco di un'esistenza da esiliati, trascorsa lontano da un paese che ancora si ama. Ma la Alabdalla e il suo collaboratore Al Beik si concedono anche un paio di digressioni metafilmiche sul limite, sempre ambiguo nelle operazioni documentaristiche, tra realtà e finzione. Ciò avviene quando i due realizzatori si filmano mentre preparano determinate sequenze, come spostare volutamente un arbusto dal campo perché troppo 'scenografico' o ordinare a un bambino di correre lungo una strada inseguito dall'operatore. Sono parentesi che da un lato danno un valore aggiunto 'teorico' all'operazione, dall'altro creano nello spettatore uno strano distacco emotivo all'interno di un'operazione che, forse, avrebbe dovuto essere solo di 'cuore'.

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